Quello che preoccupa Barbara Spinelli, al pari di Sergio Romano e di tutti coloro che invece di guardare in faccia la realtà preferiscono richiamarsi a consolatorie motivazioni, è spiegare come la morte dello stato palestinese non vada ascritta all'incapacità della società tribale palestinese a crearne uno, ma se ne debbano cercare le ragioni nel campo avverso. Cioè Israele,Usa, Europa ecc., tutta la muffa che abitualmente avvolge i ragionamenti della Compagnia di giro Spinelli & C. La replica oggi, 17/06/2007 sulla STAMPA in un editorale dal titolo " Palestina, morte di uno stato", forse l'unica nota positiva della sua lunga predica.
Ecco il testo:
Cercare le ragioni di una follia omicida è sempre impresa equivoca, anche se aiuta a capire quel che succede. Nell’immediato rischia di scompigliare l’azione, addirittura di paralizzarla: subito dopo l’attentato dell’11 settembre, ad esempio, il governo Usa decise di reagire immediatamente invece di ricostruire il perché dell’omicidio di massa, e in questo fu sostenuto da un gran numero di Stati, non solo alleati. Ma poi viene sempre il momento in cui conviene mettersi al lavoro e provare a comprendere la genesi della violenza: per evitare errori futuri, per apprendere qualcosa dalla storia che si fa, per capire che di tale storia non siamo oggetti ma soggetti, capaci di scelte libere, difficili e non caotiche. Se c’è del metodo in ogni follia dobbiamo studiare l’uno e l’altra: follia e metodo, violenza e sua ragion d’essere.
Questo vale anche per la guerra civile dell’ultima settimana a Gaza. Rinunciare a studiarne la genesi è qualcosa che va bene in una logica di guerra, dunque in una logica di comodità o di caos: lo scrittore David Grossman spiega molto bene come guerreggiare sia un atto quasi naturale per troppi Paesi, culture, religioni. «Ho la sensazione che nessuno cominci veramente una guerra: le guerre si continuano. La pace, quella è una cosa che si deve cominciare», dice in un’intervista a Repubblica, «alle volte bisogna agire contro i propri istinti per cominciare a dare fiducia agli altri».
Non solo: il rifiuto di esplorare le ragioni conduce a conclusioni fuorvianti. La conclusione cui si è giunti, dopo l’assalto di Hamas alle strutture di comando di Fatah a Gaza, è stata: ogni ipotesi di due Stati indipendenti (israeliano e palestinese) è finita per sempre col nascere di poteri palestinesi antagonisti.
Questa volta davvero Israele non avrebbe più interlocutori. Questa volta davvero sarebbe inconcepibile una Palestina araba: governata da Hamas, essa degenererebbe in base terrorista. È la tesi esposta venerdì sul Corriere della Sera da Magdi Allam.
È quello che effettivamente si può credere, se lo sguardo non va oltre l’ultimo anello della catena di eventi. Ma se si guarda alle ragioni della follia, si arriverà a una opposta e ben più inquietante conclusione. Se c’è follia omicida è perché la creazione d’uno Stato palestinese è già da molto tempo divenuta impossibile, non viceversa. Più tale creazione veniva auspicata, negli ultimi decenni, più si agiva per impedirla. Tutti gli attori l’hanno ostacolata: i governi israeliani con la politica di insediamenti che ha fatto seguito a una guerra - quella del ‘67 - che per molti aveva creato la vera Israele biblica; i Palestinesi con l’ambiguità sul destino di Israele il giorno che fosse nato il loro Stato; le potenze tutrici infine - Usa, arabi - che non hanno pesato sui loro protetti risolvendone le ambiguità.
Nell’88 l’Olp ha annunciato di voler creare uno Stato non nell’intera Palestina ma nelle terre occupate, e fu un primo progresso anche se Arafat dovette riconoscere più esplicitamente Israele, un mese dopo. La vecchia posizione, favorevole a una Palestina unificata comprendente i tre monoteismi, era, pur con nebulosità, finalmente abbandonata: i dirigenti palestinesi avevano capito che il sionismo non era una religione ma un movimento nazionale.
Su quella base nacque il processo di pace, tra i primi Anni 90 e il 2000: un decennio che molti oggi giudicano aureo, ma che in realtà sancì l’impossibilità pratica di uno Stato palestinese, screditando in tal modo Fatah, interrompendo la sua maturazione e aprendo spazi enormi a Hamas.
La tragedia palestinese si consuma in quel decennio, non in questi giorni. Si consuma a causa degli equivoci palestinesi, e s’infrange completamente su una pratica di annessione territoriale cui è stato dato il nome, beffardo, di Processo di Pace. L’annessione continuava infatti la guerra del ‘67: nell’aureo decennio gli insediamenti raddoppiarono, passando da 200 mila coloni a circa 400 mila. E il controllo israeliano si fece sempre più capillare: sulle fonti d’acqua, sul movimento delle persone, sul reticolato di strade che connettono i centri israeliani e son riservate solo a loro. A ciò si aggiunga il muro di separazione, il moltiplicarsi di punti d’accesso che rendono umiliante l’ingresso dei palestinesi in Israele. Il ritiro da Gaza nel 2005 non ha impedito che gli attributi sovrani (confini, vie d’accesso) restassero israeliani.
Chiunque parli, scriva e decida su Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est farebbe bene a dotarsi di una carta geografica. Vedrà una sorta di denso pulviscolo stendersi sui territori: una miriade di puntini, ognuno di quali è un insediamento israeliano più o meno fortificato. Qualsiasi Stato funzionante - basato cioè sulla continuità geografica, sul controllo del territorio, sul monopolio della forza - gli apparirà una beffa assurda. C’è da divenir folli a guardare quella carta.
Certo, Hamas è responsabile degli eccidi di questi giorni: ci saranno ragioni nella sua follia, ma follia omicida resta pur sempre. Rashid Khalidi, storico della Palestina e professore a New York, evoca altri fallimenti delle classi dirigenti palestinesi: l’incapacità di predisporre strutture statali, la non consapevolezza dei limiti della violenza, l’inettitudine nell’amministrare i territori e di capire la forza locale di Hamas. Inoltre manca nei Palestinesi ogni sforzo storico revisionistico: sforzo presente in Israele, dove tanti miti sono stati messi in questione. Ma sentieri analoghi sono percorribili quando c’è uno Stato, quando ci sono archivi centrali, quando si è in presenza di una forte narrazione ufficiale da contestare: condizioni che non esistono in regime d’occupazione.
L’impossibilità di uno Stato palestinese è il non-detto degli ultimi decenni, non degli ultimi giorni: è la politica israeliana di annessione dei territori. Il fondamentalismo ha accentuato tale impraticabilità - l’Islam politico ha senso del potere, non senso dello Stato e dei confini - e proprio per questo Israele l’appoggiò, per indebolire l’Olp di Arafat e rallentarne l’evoluzione.
A queste manchevolezze degli attori locali si affiancano quelle delle potenze retrostanti, in particolare dell’America. Allo stesso modo in cui Washington finanziò e addestrò Al Qaeda contro l’Urss, in Afghanistan, e oggi asseconda di nuovo il fondamentalismo sunnita per far fronte agli sciiti in Iraq e Iran, l’uso della religione come sostituto della politica è quel che ha dilatato il disastro palestinese e numerosi altri disastri. La radice di questo comportamento è antica, risale ai tempi del mandato britannico in Palestina dopo la prima guerra mondiale: per dividere i palestinesi e controbilanciare il loro movimento nazionale, Londra diede alle istituzioni islamiche il potere ma non la forza del comando, il pieno controllo sul denaro pubblico ma non l’accesso a un potere statuale (Rashid Khalidi, The Iron Cage, Boston 2006).
Celebrare oggi la fine dei due Stati in Palestina non annuncia dunque novità sostanziali. Serve a nascondere responsabilità ben più diffuse, a non vedere la lunga storia dell’odierna catastrofe. È inutile, anche, presentare l’uccisione dello Stato palestinese come vittoria d’un campo, come rivincita di chi mai credette nel negoziato: la rivincita non insegna nulla, e far chiarezza su Hamas è inane se non si fa chiarezza su tutto. Anche parlare di tragedia non ha senso, perché la tragedia classica ha ingredienti che qui mancano in quasi tutti: la scoperta di sé, il riconoscimento del proprio limite, la catarsi.
Certo il fallimento palestinese è profondo. Ma considerarlo fatale e non pensare a un ricominciamento significa cedere all’istinto bellicoso e respingere quel che Grossman ci dice: «Esiste sempre una scelta nella vita». Se non ci sarà Stato palestinese le cose non miglioreranno, ma si complicheranno grandemente. Le classi dirigenti palestinesi torneranno all’originario progetto, che prevedeva uno Stato binazionale. Bush stesso ha favorito questo sviluppo: proprio lui, che per la prima volta nella storia americana aveva auspicato la creazione di due Stati nel 2002, scrisse poi una lettera a Sharon, il 14 aprile 2004, che rendeva tale creazione del tutto impraticabile. In essa dava a Israele assicurazioni unilaterali, senza comunicarle ai Palestinesi: assicurazioni sul ritorno dei rifugiati; e assicurazione che le colonie israeliane nei territori sarebbero state considerate «nuove realtà createsi sul terreno», di cui tener conto in futuri accordi. Il diritto internazionale ne patì, perché esso giudica «inammissibile l’acquisizione di territori con la guerra» (preambolo e primi due articoli della carta Onu). Lo Stato palestinese finisce allora, e nel decennio precedente. Quella lettera fu un atto di follia senza spargimento di sangue, ma non senza relazione con le follie di oggi.
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