Due articoli in puro stile REPUBBLICA, oggi,16/06/2007. Il primo del corrispondente Alberto Stabile, che con una malriuscita arrampicata sui vetri, cerca di spiegare gli "errori" di Fatah e giustificarne la sconfitta. Si rilegga Stabile queste righe che prendiamo dal suo stesso testo: «Quando Al Fatah ha perduto le elezioni - accusa Abu Zaida - avrebbe dovuto rinnovarsi, trarre le debite conclusioni, allontanare i responsabili del fallimento, introdurre vere riforme e liberare il popolo palestinese, convincendolo di avere imparato la lezione e di essere degno di ritornare al potere". "Liberare i popolo palestinese", appunto, ma come avrebbe mai potuto farlo Fatah se il nemico che sventolava davanti al popolo palestinese era Israele ? Una cecità che Stabile non vede in tutto l'articolo, che perciò va letto con attenzione per capire come una certa sinistra la lezione della storia non la capirà mai. Peccato.
DAL NOSTRO INVIATO
RAMALLAH - La kefia bianca e nera che Yasser Arafat aveva elevato a simbolo della lotta nazionale palestinese è finita nella polvere, spazzata via, umiliata dagli uomini in passamontagna che, in segno di sfida e riappropriazione, siedono nell´ufficio di Abu Mazen, a Gaza, impugnando con la destra il Kalashnikov e con la sinistra il Corano. «E´ una giornata nera nella storia della Palestina», si lamenta, Jamas Nazzal, il portavoce di al Fatah, mentre nel suo comodo ufficio di Ramallah osserva su Al Jazeera le masse islamiche inondare il quartiere presidenziale di Gaza. Ma c´è poco da piangere, «la scritta era sui muri», avverte l´ex ministro per gli affari dei Prigionieri, Sufyan Abu Zaida, «ma si è preferito ignorarla e questi sono i risultati».
Questo crollo repentino e assoluto del mito di Al Fatah, sotto i colpi delle milizie islamiche, è una storia che comincia anni fa e che non riguarda soltanto i palestinesi ma un po´ tocca anche noi, l´Italia, l´Europa, la sinistra e, in generale i partiti che, governarono il nostro paese nel trentennio dalla fine dei 60 alla fine dei 90. C´è bisogno di ricordare le kefie bianche e nere, o bianche e rosse, che coloravano i cortei studenteschi e le assemblee di facoltà?
Chi non rammenta il posto fisso riservato alle delegazioni dell´Olp nei congressi del Pci? E le riunioni dell´Internazionale socialista, con Peres, e Arafat «carissimi nemici». E Moro e Angioni e la prima missione in Libano con i bersaglieri sul lungomare di Beirut che provocarono le ironie degli osservatori stranieri ma se ne andranno per ultimi con l´onore delle armi, lasciando ai palestinesi un ospedale da campo che ancora funziona. E Craxi e Sigonella e la rara virtù della coerenza anche di fronte gli alleati.
Solo che in quegli stessi anni l´Olp e al Fatah, che la dominava dall´interno, si stavano scavando la fossa con le loro mani. «Tra l´espulsione dal Libano nell´estate dell´82 e l´inizio degli anni ‘90 - scrive lo storico americano d´origine palestinese, Rashid Kalili - l´Olp ha subito un processo di ossificazione». L´esilio di Tunisi e la gestione sempre più accentratrice e arbitraria di Yasser Arafat hanno trasformato al Fatah in un´altra cosa rispetto al movimento rivoluzionario che fu.
Così che, quando Arafat torna a Gaza, nel ‘94, in seguito agli accordi di Oslo, quelli che porta con se e ai quali affida la gestione dell´Autonomia palestinese, sono una schiera, dice Kalili «di grigi burocrati stanchi e invecchiati che hanno perduto l´esperienza maturata in Libano e si riveleranno presto incapaci di adeguare le strutture dell´Olp ai compiti tutti da inventare dell´Autorità palestinese».
Una spaccatura si rivela subito nel corpo di Al Fatah, tra la leadership dei Territori, maturata sotto le asprezze della prima intifada e quelli che spregiativamente vengono chiamati i «tunisini», la casta dei funzionari dell´Olp al seguito di Arafat. Senza perdere tempo, i nuovi arrivati si piazzano nei gangli essenziali dell´Autorità palestinese spesso accompagnati da sospetti di corruzione, ma si rivelano incapaci di costruire le istituzioni del futuro Stato palestinese.
Un´altra spaccatura seguirà, alla fine degli anni 90, e sarà quella generazionale, tra la nuova dirigenza dei Territori che si lancia ciecamente nell´avventura della Seconda intifada, anche per non lasciarsi scavalcare da Hamas, e la vecchia guardia che non intende farsi da parte.
Così, mentre gli uomini dell´Olp si allontanavano sempre di più dalla popolazione che non ne capiva il linguaggio, gli atteggiamenti da pervenue, l´ostentazione della ricchezza, l´inganno di potersi muovere grazie ai permessi degli israeliani mentre la massa restava (e resta) paralizzata dai posti di blocco e dalle chiusure, mentre nel cuore del potere di al Fatah accadeva tutto questo il contropotere di Hamas cresceva e si espandeva.
L´avvertimento finale è arrivato nelle elezioni del gennaio 2006, con la vittoria netta, seppur favorita dalle divisioni all´interno di al Fatah, del Movimento islamico. «Quando Al Fatah ha perduto le elezioni - accusa Abu Zaida - avrebbe dovuto rinnovarsi, trarre le debite conclusioni, allontanare i responsabili del fallimento, introdurre vere riforme e liberare il popolo palestinese, convincendolo di avere imparato la lezione e di essere degno di ritornare al potere. Ma al Fatah non ha fatto nulla di tutto ciò, né Abu Mazen, da quando è stato eletto, ha fatto qualcosa in questa direzione».
Così, quando i due schieramenti si sono ritrovati l´uno di fronte all´altro è successo l´inevitabile. Nonostante molto più numerosi e meglio equipaggiati, gli uomini fedeli ad Abu Mazen non hanno saputo contrapporsi efficacemente alle milizie di Hamas più motivate e meglio organizzate. «E´ vero - continua Abu Zaida - Al Fatah ha più armi e più soldati e ha persino più ragione. Ma non è sufficiente. Non hanno avuto una leadership, non c´era un comandante e non c´era uno stato maggiore. Queste sono le cose più importanti. E non c´era nemmeno la volontà di combattere. Hamas, invece, s´è preparato per anni a questo giorno, mentre i capi di al Fatah non hanno mai avuto l´intenzione di combattere contro il proprio popolo».
Segue una intervista al direttore di Foreign Policy, Moises Naim, dal titolo rivelatore, " Questa settimana tragica è frutto degli errori di Bush e dell'Europa".Anche qui, come nell'analisi di Stabile, le nostre mosche cocchiere, pur " amanti delle dinamiche globali", come il corrispondente Mario Calabresi definisce Naim, dimostrano la loro continua cecità. Non ne hanno mai imbroccata una, amano e seguono il solito ritornello del cattivo Bush, sul quale riversare le colpe di fatti che non riescono mai a valutare nella loro interezza. Ma questè sono le opinioni che piacciono al giornale di proprietà dell'Ing. Carlo de Benedetti, i piedi sempre in molte scarpe, il cuore e il pubblico dei suoi lettori sempre a sinsitra, ma il portafoglio quello no, è ben custodito a destra. Ecco l'articolo:
dal nostro corrispondente
NEW YORK - «Il Medio Oriente ci ha abituati a settimane tragiche, ma questa è diversa, è differente, perché ci sono stati cambi di rotta fondamentali che segneranno gli anni a venire, non solo in Palestina». Moises Naim, direttore del bimestrale Foreign Policy e amante delle dinamiche globali, legge quanto è accaduto a Gaza in una sequenza più ampia, capace di terremotare ulteriormente equilibri già precari.
«In Iraq si è visto chiaramente che gli obiettivi che si era dato il governo non vengono raggiunti, il Pentagono ha ammesso che la violenza è aumentata e a Washington è stato licenziato il generale Pace, l´ultimo degli uomini del gruppo di Rumsfeld che ha voluto la guerra. A Beirut c´è stato l´omicidio di Eido, si torna a pensare che dietro ci sia la Siria e non ci sono più le condizioni per governare. Su Foreign Policy abbiamo un indice della governabilità, che segnala gli Stati che stanno per fallire. Il Paese che nell´ultimo anno ha avuto la caduta più grande è proprio il Libano. L´Iran è stato accusato dagli americani di essere coinvolto nel rifornimento di armi della guerriglia irachena. E poi c´è stata la guerra civile a Gaza. Mi sembra davvero una settimana gravida di conseguenze».
Cosa succederà nella Striscia di Gaza?
«Si è sempre parlato di due Stati, ma nessuno avrebbe immaginato che li avremmo chiamati, come si fa in queste ore, "Hamastan", lo Stato islamico di Gaza, e "Fathestina", la Palestina di Fatah in Cisgiordania. Il primo sarà una specie di prigione governata da Hamas dove sarà quasi impossibile governare, nell´altro invece Abu Mazen avrà il sostegno economico e militare di Israele e degli Stati Uniti. Tra i due ci sono anche differenze sostanziali di ricchezza, occupazione, densità di popolazione, tutte in favore della Cisgiordania».
Cosa si aspetta da Hamas?
«Quando ha vinto le elezioni c´era la speranza che un movimento di terrorismo e guerriglia venisse inevitabilmente trasformato ed educato dalla necessità di governare. Invece non è successo. Ora hanno il controllo di tutto e dovranno decidere se scegliere l´escalation contro Israele o cercare di governare il loro territorio».
Sono passati esattamente cinque anni dal discorso di Bush nel giardino delle rose alla Casa Bianca in cui disegnava il nuovo Medio Oriente pacificato.
«E´ vero che quella politica è fallita, ma sostenere che Gaza è solo un altro disastro di Bush è un po´ troppo facile e comodo intellettualmente».
Perché?
«Perché nel vuoto americano di politica in Medio Oriente non si possono non vedere il terribile silenzio e la mancanza di presenza dei Paesi Arabi. E dov´è l´Europa in tutto questo? Comunque le colpe di Bush non sono di oggi ma di sei anni fa».
Prima dell´11 settembre?
«Proprio così: Bush fin dal primo giorno sottolineò che voleva distinguersi dall´impegno di Clinton nel cercare un accordo tra Israele e Palestina, spiegarono che non erano disposti a consumarsi per il Medio Oriente. Oggi la Casa Bianca raccoglie i frutti di quella posizione sbagliata di sei anni fa, di quell´assenza di politica e di impegno».
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