"Perché bisogna bombardare l'Iran" intervista a Norman Podhoretz
Testata: Libero Data: 15 giugno 2007 Pagina: 20 Autore: Amy K. Rosenthal Titolo: ««L'Europa con l'Iran ha fallito Bush bombarderà il nuovo Hitler»»
Da LIBERO del 15 giugno 2007:
Norman Podhoretz, direttore di "Commentary", autorevole mensile d'opinione americano, ha pubblicato sul numero di giungo della rivista un lungo saggio intitolato "The Case for Bombing Iran" ("Perché bisogna bombardare l'Iran") in cui, appunto, difende l'idea del bombardamento preventivo dei siti nucleari di Teheran per prevenire l'acquisizione di armi atomiche da parte del regime degli ayatollah. Libero ha chiesto al noto intellettuale, 77 anni, newyorchese, perché si augura che sia George Bush a mettere in atto l'attacco prima della fine del suo mandato da presidente dato anche l'impasse politico che impedisce a Israele di neutralizzare il regime del presidente Ahmadinejad che più volte ha minacciato di voler spazzare via dal Medioriente lo Stato ebraico. Il senatore democratico indipendente Joseph Lieberman, domenica scorsa, ha dichiarato che «dato il sostegno di Teheran ai ribelli iracheni, gli Usa dovrebbero prendere in considerazione un attacco militare contro Teheran». Cosa ne pensa? «La mia reazione è stata positiva anche se io sento che, se dobbiamo prenderci il rischio di un attacco militare, bisogna farlo con grande decisione e cercare di distruggere le loro installazioni nucleari, non semplicemente colpire i campi di addestramento per i terroristi che vanno a uccidere i soldati americani in Iraq». Le parole di Lieberman peseranno sulla politica estera americana? «Impossibile dirlo. E poi è a George Bush che spetta decidere se agire per via militare contro l'Iran o no. Detto ciò, io credo che il presidente opterà per il sì prima di lasciare la Casa Bianca. Non c'è modo per sapere se questo avverrà davvero, ma il fatto stesso che Bush abbia sottolineato che l'opzione militare resta sul tavolo mi fa pensare che passerà all'azione». Il mese scorso, alla Conferenza internazionale sulla prevenzione delle catastrofi nucleari tenutasi in Lussemburgo, alla domanda se gli Usa dovessero trattare con gli iraniani, William Perry, ex segretario alla Difesa sotto Clinton, mi ha risposto: "Come diceva Kennedy, mai parlare per paura, mai aver paura di parlare. Anche nei momenti peggiori della Guerra fredda abbiamo discusso coi sovietici su argomenti di reciproco interesse". Come risponderebbe a Perry? «Che è un'affermazione ridicola. Il problema non è se parlare o no con gli iraniani ma se parlare con loro può servire a evitare che sviluppino la capacità di produrre l'atomica. Questo è il punto e non c'è ragione per ritenere che i negoziati, che a oggi sono durati ben quattro anni, abbiano di colpo qualche risultato positivo. In ogni caso, l'analogia con l'Urss va a pezzi se si considera che l'"equilibrio del terrore" (o MAD, mutual assured destruction) fece sì che i missili atomici restassero nei loro silos durante tutta la Guerra fredda - che io chiamo Terza guerra mondiale - perché entrambi gli schieramenti temevano il contrattacco dell'avversario. Il MAD però, come ha sottolineato Bernard Lewis, non si applica agli iraniani, che semplicemente amano e cercano la morte come hanno essi stessi dichiarato». Può spiegarci il suo paragone fra Ahmadinejad e Hitler? «Nel mio articolo ho scritto che, come Hitler, Ahmadinejad non è un politico come gli altri che cerca di aumentare il suo potere di scambio con minacce e intimidazioni in vista di obiettivi limitati in un negoziato. La sua ambizione, come quella di Hitler, è di rivoluzionare il sistema globale in modo da rendere l'Iran - e l'Islam - il centro del mondo. C'è poi anche una somiglianza contingente: gli sforzi diplomatici per prevenire che Teheran realizzi la bomba stanno facendo guadagnare tempo agli ayatollah, proprio come l'accordo di Monaco del 1938 garantì ai nazisti di entrare in guerra nelle condizioni più favorevoli per loro». In Italia, il premier Romano Prodi e il ministro degli Esteri Massimo D'Alema di continuo chiedono un "ritorno al multilateralismo" e sostengono la necessità di parlare con Teheran. Cosa direbbe loro per convincerli che quest'ultima opzione è sbagliata? «Dubito che qualunque mia frase possa convincerli... La verità è che gli europei parlano con Teheran da quattro anni. Persino le sanzioni votate dal Consiglio di sicurezza Onu sono state troppo deboli per avere un effetto concreto perché russi e cinesi sono decisi a non piegare l'Iran. Perciò, non si tratta di scegliere fra unilateralismo e multilateralismo. Gli Stati Uniti sono stati anche troppo multilateralisti nel loro approccio all'Iran, lasciando che altre nazioni (Francia, Gran Bretagna, Russia, Cina e pure Germania) conducessero le trattative». Nel suo articolo lei menziona «i sofisticati europei che amano fare assegnamento sulla politica "soft", la diplomazia». Perché la politica soft non funziona con Teheran? «Non può funzionare perché l'Iran intende rovesciare l'attuale sistema internazionale per sostituirlo con uno nuovo in cui la cultura islamica sia la forza predominante. Lo si è visto anche nel caso dei marinai inglesi rapiti. Londra ha cercato di mettere in atto una politica "soft" con gli ayatollah. Perciò, se la politica soft non significa nulla in un incidente relativamente secondario come quello, mi chiedo come potrebbe significare qualcosa quando si arriva alle vere grandi questioni». Cosa pensa del fatto che il presidente russo Putin abbia messo in guardia gli Usa dal piazzare un sistema anti-missile in Repubblica Ceca e Polonia? «Non riesco a prendere davvero sul serio le parole di Putin. Non credo sia preoccupato per il sistema antimissile. Sta cercando di imporsi al mondo - come la Francia di De Gaulle che voleva riottenere lo status di grande potenza senza avere la forza militare». In Europa si parla di ritorno alla Guerra fredda... «Gli europei continuano a non capirci nulla. Non hanno imparato alcunché dall'11 settembre e rifiutano di far tesoro di quanto è accaduto da allora. Putin non vuole tornare alla Guerra fredda. Quello che realmente desidera è ottenere il rispetto dell'Occidente e diventare una potenza di primo piano sullo scacchiere europeo; per avere ciò, fa lo spaccone». Secondo l'ascoltatissimo opinionista americano Robert Kagan, con l'Iran Bush sta solo "dando un'opportunità alle cose inutili" ("giving futility its chance"). «Kagan coglie nel segno quando dice che Bush ha lasciato che i negoziati proseguissero anche se inutili. Ad esempio, il presidente è continuamente tornato in Consiglio di sicurezza per ottenere risoluzioni e sanzioni più dure proprio per dimostrare che sta facendo ogni cosa pur di evitare l'azione militare. Inoltre, sono sicuro che in cuor suo spera di poter fermare Teheran senza le armi, ma penso anche che sarà in una posizione più forte per lanciare l'attacco una volta che abbia dimostrato a ogni persona ragionevole che non esiste assolutamente alternativa al bombardamento. Perciò, penso che Bush stia facendo qualcosa di simile a quanto fece alla vigilia dell'invasione dell'Iraq. Si diceva che stesse correndo verso la guerra e che era "unilaterale"; invece passò otto mesi cercando di cementare una coalizione, come pure rivolgendosi tre o quattro volte all'Onu. Non ci fu alcuna fretta né unilateralismo, ma il presidente cercava di dimostrare che non c'era altra possibilità all'azione militare contro Saddam. E riuscì a convincere - almeno allora - la maggioranza degli americani e il Congresso». C'è qualcosa che vuole dire agli europei in questo frangente storico? «Potrei ripetere quanto ha detto Bush stesso. Sono convinto che se si permette all'Iran di avere la bomba atomica, da qui a cinquant'anni la gente guarderà alla nostra generazione - di europei e americani - proprio come noi guardiamo a Monaco e diranno: «Come hanno potuto lasciare che ciò accadesse?».
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