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Corriere della Sera Rassegna Stampa
15.06.2007 Dicono che vogliono distruggere Israele, ma non fanno sul serio
prima Saddam, ora Ahmadinejad e Hamas. Finalmente qualcuno li ha capiti: Sergio Romano

Testata: Corriere della Sera
Data: 15 giugno 2007
Pagina: 51
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Perché la guerra irachena ha reso Israele più insicuro»

Sergio Romano rispondendo a un lettore sul CORRIERE della SERA del 15 giugno 2007 sostiene che la fine della dittatura di Saddam Hussein avrebbe reso Israele meno sicura (nonostante oggi vi sia sicuramente uno sponsor del terrorismo antisraeliano in meno).
Un'azione statunitense contro l'Iran farebbe ancora peggio, D'altro canto è noto che Ahmadinejad vuole solo per il suo paese un ruolo di "potenza regionale".

Il vero problema di Israele non è chi vuole distruggerla, che non ha mai intenzioni serie, ma il suo "unilateralismo", il rifiuto di riconoscere un interlocutore palestinese.

Anche il terrorismo di Hamas e Fatah forse serve solo a guadagnare consensi. E In quanto al rifiuto di riconoscere Israele, fondato su basi religiose, del gruppo islamista, nemmeno questo sarà da prendersi sul serio.

Peccato che a rischiare di essere spazzata via dalla faccia della terra, nel caso il terrorismo suicida, la bomba atomica islamica e i proclami genocidi di Hamas e Iran non fossero scherzi  e le sottili  analisi di Romano si rivelassero troppo sottili rispetto alla realtà, sia Israele.

Ecco il testo:   

Davvero Bush ha sbagliato tutto in Iraq? Non ne sono così convinto. Saddam Hussein non era coinvolto nell'attentato delle Due Torri e in generale con il terrorismo, ma si proponeva come il leader del mondo islamico nella lotta contro Israele. Abbattendo Saddam con un pretesto e destabilizzando l'Iraq, si è raggiunto pienamente l'obiettivo di mettere al sicuro Israele. E se la mia teoria è esatta, attendiamoci ora una ripetizione dell'operazione con l'Iran. I pretesti non mancherebbero.
Giorgio Soave
giorgio_soave@virgilio.it
Caro Soave, il principale obiettivo di Saddam Hussein era il dominio del Golfo Persico. Dichiarò guerra all'Iran e ne invase il territorio quando sperò che la rivoluzione degli Ayatollah avesse disorganizzato il regime dello Scià e fiaccato la capacità di resistenza delle sue Forze Armate. Invase il Kuwait quando il ricco principato petrolifero del Golfo rifiutò di condonare i debiti che l'Iraq aveva contratto con i Paesi della regione per le esigenze del conflitto. Nell'ambito di questa strategia la lotta contro lo «Stato sionista» fu l'argomento di cui il leader iracheno si servì per conferire un apparente valore pan-arabo alle sue ambizioni nazionali. Colpì con i suoi missili le città israeliane, all'inizio della Guerra del Golfo, perché voleva dimostrarsi in tal modo più arabo e musulmano dei molti Paesi della regione che avevano accettato di far parte della coalizione americana. Sfruttò i sentimenti anti-israeliani delle società arabe nel tentativo di ricattare politicamente gli amici degli Stati Uniti, come l'Arabia Saudita. Lei ritiene che la eliminazione del regime di Saddam Hussein abbia «messo al sicuro» lo Stato israeliano. Questo fu effettivamente uno degli argomenti di cui molti neoconservatori americani (fra cui in particolare David Frumm e Richard Perle) si servirono per convincere la Casa Bianca che occorreva eliminare il regime di Bagdad. Tolto di mezzo Saddam (così sostenevano nei loro promemoria), la soluzione della questione palestinese e delle altre ancora pendenti sarebbe stata molto più facile. Ma è accaduto, in realtà, esattamente il contrario. Per due ragioni, strettamente intrecciate. In primo luogo il governo di Sharon e del suo successore hanno continuato a perseguire una strategia unilaterale che rifiuta il riconoscimento di un qualsiasi interlocutore palestinese. Per il modo in cui venne realizzato il ritiro delle truppe israeliane da Gaza non poteva dare alcun contributo a una soluzione pacifica e concordata della questione. La vittoria di Hamas nelle elezioni per il rinnovo del Consiglio legislativo palestinese fu anche il risultato dello scarso credito di cui Abu Mazen, trattato dagli israeliani come un irrilevante fantoccio, godeva ormai nei territori occupati. In secondo luogo la guerra irachena ebbe l'effetto di legittimare non soltanto il fanatismo religioso di Al Qaeda, ma anche i sentimenti nazionalisti della società araba. Per l'ala più radicale del nazionalismo pan-arabo, l'occupazione americana dell'Iraq e il sostegno incondizionato che la presidenza Bush ha assicurato alla politica israeliana sono ormai i due volti di uno stesso nemico. È più facile da allora favorire e incoraggiare il reclutamento dei militanti che affluiscono sul campo di battaglia iracheno o vanno a ingrossare le fila di Hezbollah e di Hamas. Con le sue rozze dichiarazioni anti-sioniste, il presidente iraniano dimostra di averlo compreso. La denuncia di Israele è il mezzo di cui Ahmadinejad si serve per conquistare consenso e prestigio, nel suo duello con l'America, anche in quella componente sunnita del mondo musulmano che non ha alcuna simpatia per la minoranza sciita. Un intervento militare americano contro l'Iran non potrebbe che complicare il problema e allontanare la prospettiva

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