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La Repubblica Rassegna Stampa
15.06.2007 La vittoria di Hamas a Gaza è un rischio per Israele
intervista David Grossman

Testata: La Repubblica
Data: 15 giugno 2007
Pagina: 3
Autore: Alberto Stabile
Titolo: «Grossman: "Questo è l´inizio la guerra può travolgerci tutti"»

Intervista a David Grossman sulla vittoria di Hamas a Gaza, dalla REPUBBLICA del 15 giugno 2007:

GERUSALEMME - David Grossman, la guerra è il tema che attraversa il suo ultimo libro («Con gli occhi del nemico», Mondadori). In questi giorni stiamo assistendo ad un paradosso della Storia, la guerra civile palestinese, il conflitto fra i poveri, i rifugiati, gli occupati. Che cosa pensa davanti alle immagini provenienti da Gaza?
«Prima di tutto, sento una grande preoccupazione per quello che sta per svilupparsi da questa guerra civile. Sono quasi sicuro che non finirà a Gaza, che si infiltrerà anche nella Cisgiordania e in seguito produrrà violenze contro Israele. E´ orribile vedere quello che i palestinesi si fanno l´uno l´altro. Devo dire che la mia prima reazione è stata che una violenza interna di tale portata è una cosa che noi, qui in Israele, non abbiamo ancora sperimentato. Ho pensato allo sganciamento da Gaza, a quanta tensione ci fosse, a quante armi, a quanto fanatismo ci fossero in giro, eppure, nemmeno una goccia di sangue è stata versata, né dei coloni, né dei soldati».
Qualcuno ritiene che la guerra civile palestinese sia un risultato perverso dell´occupazione israeliana. Pensa che Israele possa avere una qualche responsabilità in quello che sta succedendo laggiù?
«Questa è la prima cosa che si tende a dire: ‘Abbiamo parlato loro nella lingua della violenza e dell´occupazione per tanti di quegli anni, che alla fine sono rimasti contagiati ed ora parlano la stessa lingua´. Ma penso che le cose siamo molto più complesse. Israele non ha occupato l´Iraq, eppure gli iracheni si stanno sgozzando a vicenda, a centinaia al giorno. Quindi propongo di non rimproverare Israele per tutto quello che succede, anche se come israeliano so che partecipiamo alle violenze in tutta la regione. E´ una cosa che dobbiamo ricordare. Tutti questi scontri, tutti questa frustrazione e rabbia non escono dal nulla: arrivano dopo tanti anni in cui questa gente ha vissuto sotto una tale pressione, che non deve quasi sorprendere».
Dovesse, come tutto lascia prevedere, prevalere Hamas, ritiene che Israele dovrebbe intavolare un negoziato anche con il movimento islamico?
«Penso che sia necessario provare ogni possibilità. Non sono sicuro che avremo successo, ma ho una profonda fede nella natura del dialogo e penso che due parti che comincino un dialogo senza condizioni preliminari, nella maggioranza dei casi ne emergeranno diversi, un po´ più amici di prima. Non sono al 100% sicuro che Hamas possa cambiare: si tratta di un movimento molto `ermetico´ e fanatico, religiosamente impegnato. Preferirei ovviamente trattare con un interlocutore più realistico, più disposto al compromesso, più flessibile. Ma se quest´interlocutore non c´è, allora sono disposto a trattare con chiunque mi stia di fronte, nella speranza di cambiarlo».
Rabin diceva, infatti, che «non ci si può scegliere il proprio nemico». In questa fase, vede svanire le probabilità di pace?
«Penso che questi siano brutti giorni per la pace e per la speranza. Nel momento in cui stiamo parlando, in questa settimana, con Hamas che sta conquistando gli avamposti di al Fatah a Gaza e centinaia di palestinesi sono stati uccisi da altri palestinesi, non penso veramente che ci sia qualcuno con cui si possa parlare, perché non si sa con chi s´andrebbe a concludere l´accordo. Per il momento penso che dobbiamo semplicemente aspettare finché i palestinesi stessi decidano del loro proprio destino. Detto questo, vorrei anche ricordare che abbiamo un altro fronte in cui dobbiamo fare uno sforzo, il fronte siriano. Di nuovo, non si tratta di un fronte molto incoraggiante o con ampie prospettive, ma dobbiamo fare del nostro meglio per prevenire la prossima guerra».
Nel suo libro, lei parla della guerra con i suoi effetti devastanti non soltanto sulla realtà esterna, ma anche sulla vitalità, sulla «tonalità interiore» di ciascuno di noi. La guerra è male, lo sappiamo. Ma perché, secondo lei, il ricorso alla guerra è così facile e immediato?
«Questa è una questione davvero molto grande. Ho la sensazione che nessuno cominci veramente una guerra, le guerre si continuano. La pace, quella è una cosa che si deve cominciare. Guerreggiare, disgraziatamente, è una cosa quasi naturale per troppi paesi, troppe culture e troppe religioni. Ci vogliono molti sforzi e alle volte bisogna agire contro i propri istinti per cominciare a dare fiducia agli altri, per cominciare ad aprirsi, per essere in grado di vedere la realtà attraverso gli occhi dell´altro. La tragedia è che più siamo coinvolti nella violenza, più questa forma il nostro vocabolario, detta il modo con cui guardiamo il mondo, quali siano le cose che siamo disposti a vedere e quali quelle verso le quali siamo quasi ciechi».
Sembrerebbe dai suoi scritti che la letteratura sia in grado di ristabilire certi principi sistematicamente travolti dalla guerra.
Quando avremo conosciuto l´altro, lei dice, anche se l´altro è il nostro nemico, da quel momento non potremo più essergli indifferenti. Che cosa ha impedito finora, agli israeliani ed ai palestinesi, di fare questo passo?
«Soprattutto la paura. Perchè se ti concedi di esporti ad alcune delle giuste rivendicazioni, ad alcune delle sofferenze reali del tuo nemico, immediatamente senti che la tua resistenza contro questo nemico è quasi distrutta, devastata. La sensazione, fra noi ed i palestinesi, è che si tratti di un ‘gioco a somma zero´, tutto o nulla, in cui, se concediamo a loro una qualche legittimazione per la loro giustizia, allora non avremo alcuna giustizia. Lo vede anche lei, come sia i palestinesi che gli israeliani diventano nervosi, allergici, quando cominciano a sentire parlare delle tragedia della parte opposta. Hanno semplicemente perduto la capacità di provare simpatia, perché ogni forma di simpatia esprime un´identificazione con l´altro».
Scrivere in un paese in guerra può essere d´aiuto per superare una tragedia personale, come la perdita di una persona cara. Ma che consiglio può dare a quelle persone che hanno subito una grave perdita e non hanno il dono della scrittura?
«Di essere attivi. Di non sentirsi vittime. Di non diventare dipendenti dalla sensazione d´impotenza. Ci sono così tante tentazioni in una situazione del genere, di sentirsi disperati, paralizzati. Ed io, nella mia esperienza, sento che essere attivi, tentare di ricordarsi che esistono sempre alternative a quasi tutte le condizioni umane, che esiste sempre una scelta nella vita, è qualcosa che mi è stata di grande aiuto. Io l´ho tradotta nella scrittura. Altri possono tradurla in ciò che sanno fare».

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