Dizionario dell’Olocausto a cura di Walter Laqueur
Edizione italiana a cura di Alberto Cavaglion
Einaudi Euro 30,00
Nell’idea stessa di dizionario c’è qualcosa di piacevolmente rassicurante. E’ forse la promessa di dare un senso alla realtà e di piegarla all’ordine neutro e antico dell’alfabeto.
Ma è anche un principio borghese di buon uso del tempo e dello spazio. Al posto di una biblioteca illimitata, un volume solo raccoglie l’essenziale e si offre servizievole per risolvere dubbi e curiosità.
Tuttavia il Dizionario dell’Olocausto, curato da Walter Laqueur e portato in italiano sotto la responsabilità di Alberto Cavaglion, contraddice la vocazione ottimistica di questo genere letterario. Qui, infatti, proprio il concatenarsi alfabetico delle voci acuisce lo spaesamento. Quello che è uscito dal lavoro di oltre cento autori di undici Paesi è del resto l’inventario di uno degli incubi peggiori della storia, appena rischiarato da qualche lemma di umanità. Dalla “a” di “Africa settentrionale”, dove giunse la caccia nazista all’ebreo, sino alla “z” di “Zyklon b”, il composto a base di cianuro utilizzato nelle camere a gas, l’alfabeto sottolinea implacabile la sequenza di protagonisti, luoghi e momenti salienti dello sterminio.
“I documenti non hanno odore, non muoiono di fame e di freddo, non hanno paura”, ci ricorda Laqueur nella sua prefazione. Ma se l’orrore esistenziale resta inesprimibile, le ricognizioni biografiche e le cronache hanno pur sempre una loro forza euristica. Nonostante incertezze e lacune, nelle statistiche il margine di errore non supera infatti il 10-15%: è certo che durante il Terzo Reich furono uccisi tra i cinque e i sei milioni di ebrei.
Tra le voci più eloquenti si segnala quella sulle “Risposte teologiche e filosofiche” alla Shoah, in cui si racconta del vano affaticarsi dei pensatori del dopoguerra attorno al baratro del silenzio divino. Da leggere poi “Soluzione finale, chi sapeva e cosa se ne sapeva”, in cui viene messa impietosamente in luce la volontà d’illudersi, di minimizzare e tacere anche quando, almeno dal 1942, la magnitudine dell’eccidio doveva ormai esser chiara a molti.
Ben calibrate le aggiunte scritte per l’edizione italiana, che spaziano dalla rielaborazione dell’Olocausto in “Cinema e televisione” del nostro Paese all’opera della “Delegazione e assistenza agli emigrati (Delasem)”, per assicurare la fuga di quanti più ebrei possibile, sino ai campi di concentramento italiani e al “Negazionismo” goffo di casa nostra. Lemmi che confermano il carattere ottusamente burocratico del razzismo fascista e i molti episodi di collaborazionismo e di delazione, riscattati, ma solo in parte, dalla fortunosa catena di solidarietà, che pure consentì a migliaia di ebrei italiani di sopravvivere.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore