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La Stampa Rassegna Stampa
10.06.2007 "Israeliani in borghese": un'espressione degna di Hamas
in un articolo di propaganda

Testata: La Stampa
Data: 10 giugno 2007
Pagina: 16
Autore: Giulia Vola
Titolo: «Sassi e canzoni “La mia vita contro il Muro”»
La STAMPA del 10 giugno 2007 pubblica un articolo di Giulia Vola sul musicista palestinese Ramzi Aburedwan

Un articolo di propaganda.
Che inizia accusando soldati israeliani di un infanticidio a sangue freddo durante la prima intifada, durante la quale i soldati israeliani venivano attccati e, come in quella successiva di "Al Aqsa", le vite dei bambini venivano deliberatamente messe in pericolo dagli aggressori: Tshal non spara contro bambini che "giocano a pallone per strada".
Che prosegue descrivendo i disagi causati ai palestinesi dalla barriera difensiva senza accennare al terrorismo che l'ha resa necessaria, accusando Israele della faida interpalestinese, di molto precedente, in realtà, al blocco dei finanziamenti al governo di Hamas. Esaltando la vittoria democratica di questa organizzazione terroristica.
Per approdare a una frase agghiacciante che rivela l'implicita adesione, forse inconsapevole,  della giornalista all'ideologia dei terroristi che fanno strage di civili israeliani:  
Ramzi Aburedwan, ci viene spiegato, ha toccato con mano più volte la lotta fratricida tra i palestinesi "come quella volta, nel 2006, che i martiri delle brigate di Al Aqsa scambiarono per israeliani in borghese il gruppo di musicanti e non esitarono a crivellare la fiancata del loro pulmino giallo".
"Israeliani in borghese" ?
Un 'espressione apparentemente assurda, che un terrorista di Hamas o delle Brigate Al Aqsa non avrebbe difficoltà a spiegare. Per lui tutti gli israeliani, inclusi i bambini , sono "occupanti", soldati  "in borghese e dunque obiettivi "legittimi".
Giulia Vola condivide questa logica aberrante ?


Ramzi Aburedwan aveva otto anni quando scoprì che la guerra non era un gioco. Era l’inverno del 1987, nel campo profughi di Al Amari faceva freddo, Ramzi e Khaled giocavano a pallone per strada. I carri armati erano in fondo alla via, il fuoco arrivò improvviso: Khaled morì all’istante. Ramzi non pensò, prese una pietra e con tutta la rabbia e la forza che aveva nel cuore e nelle braccia la scagliò contro i militari israeliani. Il giorno dopo aveva un braccio fasciato ed era su tutte le prime pagine dei giornali. Era diventato l’icona della Prima Intifada. Diciotto anni più tardi, nel settembre 2005, ha posato l’ultima pietra della scuola di musica di Ramallah. Senza rabbia, gonfio di gioia, ubriaco di speranza. Ed è diventato il simbolo del riscatto per centinaia di bambini nei Territori Occupati.
Ramzi oggi suona il violino nelle orchestre e le sue note raccontano Ramallah, Betlemme, Gaza, Nablus e Gerusalemme, i campi profughi e le colline, gli ulivi e il Muro, i suoi amici morti e la sua famiglia decimata dal 1948 a oggi. Non ha bisogno di parole, la musica è il suo linguaggio da quando ha sfiorato il primo strumento, per caso, a 18 anni. «Se sono vivo lo devo alla musica. Per questo sono tornato a Ramallah: per insegnare ai bambini a volare oltre i muri e le etnie con le note. Così come mi ha insegnato il musicista palestinese Mohamed Fadel nel 1997, quando mi ha messo tra le mani una viola. Non avevo mai sentito musica dal vivo prima di allora, credevamo che uscisse dal televisore e basta».
Oggi sono più di 150 i bambini palestinesi tra i 4 e il 12 anni che grazie a Ramzi e alla sua associazione Al Kamandjati («il violinista» in arabo) hanno imparato a suonare il pianoforte, il contrabbasso, il violoncello, il clarinetto, il flauto, la viola. Senza contare i corsi itineranti, da un campo profughi all’altro, che Ramzi e il suo staff organizzano nei fine settimana. «La difficoltà più grande - racconta Ramzi - è spostarsi. Superare i posti di blocco e i check point richiede ore». Ines Hassan ha 6 anni, suona il flauto e ha i capelli lunghi e ricci. «Il primo giorno di corsi - racconta Ramzi - ha chiesto a un soldato se poteva spostarle il Muro perché, diceva, stava andando a suonare per la televisione ed era in ritardo. Il futuro della Palestina è in mano ai bambini di oggi».
Ramzi non si è mai accontentato delle risposte preconfezionate che gli adulti gli srotolavano nella sua infanzia imbevuta di guerra. «Nel 1987 mi hanno intervistato e fotografato. E io mi sono messo in posa. Ridevo, non capivo. Ero un eroe. Dieci anni dopo ho preso il primo aereo e sono andato negli Usa: quando ho visto le foto della Palestina sui giornali ho capito e ho pianto». Poi ha guardato Peter Sulski, il professore londinese che lo stava accompagnando in tour, come rappresentante del Medio Oriente, e si è fatto una promessa ad alta voce. «Sarei ritornato per spiegare, perché nei Territori viviamo come topi in una scatola, l’uno ammassato all’altro, l’uno contro l’altro.
I bambini sanno solo che Israele è l’invasore. E dopo la vittoria democratica di Hamas, i palestinesi hanno perso gli appoggi internazionali e si sono ritrovati con la pancia vuota. È stato l’inizio della lotta fratricida». Una lotta e un odio che Ramzi ha toccato con mano più volte. Come quella volta, nel 2006, che i martiri delle brigate di Al Aqsa scambiarono per israeliani in borghese il gruppo di musicanti e non esitarono a crivellare la fiancata del loro pulmino giallo. «Dopo la choc abbiamo raggiunto il campo di Shufat, nella periferia di Gerusalemme, e un bambino ci ha dato un disegno: accanto a un Kalashnikov c’era un grande violino. Lì ho capito che potevo cambiare il loro immaginario e ho dimenticato la paura di morire di un’ora prima».
Ramzi ha 28 anni, insegna al Conservatorio Nazionale Edward Said a Ramallah e ad Angers, in Francia, fa concerti in giro per il mondo con il suo gruppo - i Dalouna - e raccoglie fondi per inviare strumenti musicali in Palestina. Non vuole una famiglia perché quella che ha incontrato per le strade lo ha assorbito fin nelle viscere. Perché lo sguardo di Ouday, il quindicenne raccolto nel campo di Al Fuwwar, a Hebron, e portato a cantare sui palcoscenici di mezzo mondo, lo ripaga degli gli amici persi sotto il fuoco. Perché la strofa che dice: «Ho chiesto al vento di prenderci per mano e di portarci via da qui» fa sorridere Ines, la bambina che vuole suonare per la televisione e che vuole spostare il Muro.

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