Tahar Ben Jelloun il virtuoso del pregiudizio anche scrivendo del genocidio in Darfur riesce ad attaccare Stati Uniti e Israele
Testata: L'Espresso Data: 09 giugno 2007 Pagina: 1 Autore: Tahar Ben Jelloun Titolo: «La linea che unisce il Darfur alla Palestina»
Tahar Ben Jelloun sull'ESPRESSO del 9 giugno 2007 scrive del genocidio in Darfur. Non è molto interessato alla vicenda, che si limita a sfruttare per attaccare gli Stati Uniti (per le sanzioni contro Khartoum !) e... Israele, che non aiuta Abu Mazen.
Una conferma del fatto che Ben Jelloun non ha interessi umanitari, se non quelli utili ale sue posizioni antiamericane e antisraeliane.
Ecco il testo:
Il bimbo di un anno morto di stenti e sepolto dai genitori in un campo profughi del Darfur avrebbe potuto chiedersi perché l'abbiano messo al mondo per fargli provare il dolore dell'esistenza prima di farlo scomparire quasi subito nel nulla, sotto terra. Ha aperto gli occhi per assistere allo spettacolo della violenza. Li ha richiusi dopo aver patito la fame e l'ingiustizia. Se n'è andato recando impressa l'immagine di un'umanità che fa ribrezzo, ha visto di cosa sono capaci gli uomini quando la loro rapacità e il loro fanatismo si esprimono scegliendo le vittime designate fra le persone più bisognose, più deboli, fra gli innocenti come lui. È stato sepolto proprio nel giorno in cui, dall'altra parte del mondo, George Bush ha deciso d'inasprire le sanzioni contro il regime del Sudan, responsabile di un genocidio in atto nella regione orientale del paese, il Darfur.
Ancora una volta vengono punite le popolazioni, proprio come all'epoca dell'embargo contro l'Iraq di Saddam Hussein. Il presidente sudanese Omar El Bechir sarà sicuramente infastidito. Bush è additato come il responsabile della catastrofe irachena e soprattutto come l'uomo che ha fatto catturare il rais. Le sue sanzioni comporteranno qualche piccolo problema pratico, ma ancora una volta avranno ben scarsa efficacia: la bacchetta magica del presidente americano non potrà migliorare la sorte di due milioni di profughi e delle miglia di giovani donne stuprate dalle milizie, né cancellare 200 mila morti.
Il Darfur (la casa del forno, in arabo) rappresenta una tragedia prodotta da un conflitto etnico, politico e culturale, esploso nel 2003, fra le popolazioni musulmane, ma non di lingua araba, delle regioni occidentali del Sudan e le milizie arabe alleate col governo di Omar El Bechir: i cosiddetti janjaweed (i cavalieri della guerra), armati da Khartum che ha dato loro carta bianca per compiere una pulizia etnica che si è tradotta in violenze contro donne e fanciulle, massacri sistematici e atti di barbarie terrificanti. Dal 2004, gli Stati Uniti hanno riconosciuto che si tratta di un genocidio. Oltre ai due milioni di profughi, vanno ricordati anche i 230 mila rifugiati nel Ciad e nella Repubblica Centro-africana.
Dietro tutto questo c'è il petrolio e l'acqua, due risorse essenziali per il paese. La Cina, che acquista i due terzi del petrolio dal Sudan, gli vende in cambio armi e ha persino creato fabbriche sul suo territorio per produrle. Malgrado l'embargo dell'Onu, la Russia non si preoccupa di fornirne anch'essa a Khartum e ignora l'opposizione degli abitanti del Darfur alla politica razzista di Omar El Bechir. L'Organizzazione dell'unità africana (Oua) ha inviato 7 mila soldati per riportare la pace, ma non servono a nulla, mentre Pechino è schierata col presidente sudanese che rifiuta l'invio di caschi blu dell'Onu in questa regione. Così, nel frattempo, i massacri continuano.
Punendo il governo di Khartum, la Casa Bianca ha voluto assumere una parvenza umanitaria. Visto il suo fallimento in Iraq e il caos che ha provocato, era normale che si preoccupasse delle popolazioni sterminate impunemente da quattro anni a questa parte. I bambini del Darfur che succhiano i seni privi di latte delle loro madri adesso possono star sicuri: papà Bush ha battuto il pugno sul tavolo! La fame non li affliggerà più e i janjaweed tremeranno di paura! Ma in definitiva, la lezione da trarre da questa tragedia è la stessa che proviene da un conflitto più antico e soprattutto più difficile, quello che si protrae dal 1948 in Medio Oriente: la solitudine della giustizia.
Alcuni conflitti sono destinati a protrarsi crudelmente per l'eternità. Così è nel caso di quello israeliano-palestinese che non cessa, si complica e continua ad alimentare odio e incomprensioni. La comunità internazionale è stanca delle recrudescenze di questa guerra in corso non solo fra i due contendenti, ma anche fra Hamas e Fatah. I recenti sviluppi della crisi palestino-siro-libanese hanno reso le cose ancor più complesse. Né si sa più cosa pensare del futuro di uno Stato palestinese virtuale, poiché a fianco di Hamas e di altre organizzazioni islamiste manipolate da Damasco o da Teheran, vi è un capo dell'Autorità palestinese in lotta su tutti i fronti, interni ed esterni, un uomo che cerca la pace, ma è travolto da movimenti estremisti e non viene compreso né aiutato da Israele.
Sappiamo che la soluzione di questo problema dipende in gran parte dalla volontà americana. Tutto il mondo aspetta la fine dell'era di Bush per poter intravedere esiti diversi di questo conflitto che non cessa di rattristare migliaia di famiglie e impedisce ai paesi arabi di emanciparsi. Nel frattempo, il presidente siriano è stato rieletto con il 97,6 per cento dei suffragi e dev'essere molto soddisfatto di questo trionfo della democrazia! Così il suo paese sarà al riparo da un tribunale internazionale che deve giudicare gli assassini di uomini politici come Rafik Hariri, l'ex premier libanese.
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