La guerra dei sei giorni nel ricordo di Fiamma Nirenstein
Testata: Il Giornale Data: 08 giugno 2007 Pagina: 1 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «Io, ragazzina, ho combattuto»
Dal GIORNALE del 4 giugno 2007:
Quando alle sette meno dieci il 5 di giugno 1967 la radio scandì «lenzuolo rosso», la parola d’ordine, e la Guerra dei Sei Giorni cominciò, mi trovavo al kibbutz Neot Mordechai in Alta Galilea, il Libano a sinistra, il Golan siriano a destra: ero una biondina di sinistra che la famiglia aveva spedito in Israele sperando tornasse un po’ più saggia. Nasser gridava ogni giorno la sua promessa di distruzione, ammassava truppe nel Sinai cacciando le forze Onu dopo aver chiuso il canale di Suez; dalla Siria si levavano Mig in volo sulle vigne in cui lavoravo in costume da bagno; noi volontari scavavamo trincee nel kibbutz, imparavamo il passo del leopardo sorreggendo un vecchio fucile. E mi sembrava un gioco. Niente era più lontano dell’idea della conquista dalla testa dei membri del kibbutz, dei cittadini di Kiriat Shmona che avevano incerottato le vetrine dei negozi per evitare che le bombe scaraventassero schegge taglienti. Si aspettava, mentre il rombo della minaccia di sterminio si faceva più forte. Quando la guerra scoppiò, oltre all’Egitto, la Siria e la Giordania, anche Sudan, Algeria, Irak, Mauritania, Yemen, si unirono alla compagnia. Le sirene suonarono, mi vestii ancora insaponata nella doccia, avevo il compito di portare i bambini nel rifugio, e lo feci per sei giorni. Alla quarta sirena già non correvo più, eseguivo i miei compiti, nel rifugio giocavamo e cantavamo. Lungo la strada orlata di eucalipti sul margine delle vigne, passavano i carri armati che si ammassavano al confine. I soldati erano come me, sessantottini, ragazzi, alcuni invitavano per scherzo noi ragazze che offrivamo loro da bere «Vieni a Damasco?»; solo uno mi fece un segnaccio con l’indice per dire che lui voleva andare a casa e non voleva la mia acqua. Quando Moshe Dayan, ministro della Difesa (Rabin era Capo di Stato Maggiore), parlò alla radio, chiesi che cosa dicesse (allora non sapevo l’ebraico) e qualcuno del kibbutz, pacifista anche lui, mi disse «Shtuiot», sciocchezze. Invece, era l’annuncio di una nuova epoca. Fino al 4 di giugno avevamo ascoltato alla radio l’annuncio dell’annichilimento d’Israele, stavolta sul serio; Nasser (e così gli altri Paesi Arabi, convinti dal 1948 di poter distruggere lo Stato ebraico, occidentale, democratico), mentre le sue strade si riempivano di caricature antisemite e di canzoni con il ritornello «sgozza sgozza», spiegò: «Intendiamo lanciare un assalto generale a Israele. Sarà guerra totale. Lo scopo basilare è la distruzione di Israele». Nasser ammassò nel Sinai 900 carri armati e130mila uomini, mentre Levi Eshkol, il premier israeliano, e Abba Eban, ministro degli Esteri, cercavano ogni via diplomatica per bloccare la guerra. Gli americani intimarono di non attaccare. Tirava aria di un secondo Olocausto. Nasser convinse anche re Hussein che non vi erano dubbi: Israele sarebbe morta. Contrariamente alla lectio dell’insistente scuola che vede nella guerra del 1967 un’aggressione israeliana e un’indebita appropriazione di territori altrui, Israele non ebbe altra scelta se non l’azione preventiva con cui distrusse a terra l’aviazione egiziana. Gli arabi avrebbero attaccato e distrutto, se Israele non avesse agito. Michael Oren, il più eminente studioso della Guerra dei Sei Giorni, dimostra che l’Egitto, la Giordania e la Siria avevano preparato dei piani di distruzione capillare dello Stato d’Israele. Amman aveva disegnato la deportazione e l’eliminazione della popolazione di intere città israeliane. E la presa di Gerusalemme, da 19 anni in mano giordana e chiusa nei luoghi di fede a cristiani ed ebrei, fu dovuta all’attacco che i giordani, alle dieci del 5 giugno, portarono a Gerusalemme ovest. Questo, nonostante Israele avesse chiesto direttamente a re Hussein di restare fuori dalla guerra. Anche la Siria attaccò subito. Israele fu costretta a combattere, anche se gli americani erano contrari e i francesi la tradirono: il risultato di quella guerra solitaria fu un allargamento territoriale frutto di autodifesa. E se oggi si suggerisce che la Ybris israeliana spinse a tenersi i territori, in realtà essi furono restituiti ogni volta che ve ne fu possibilità; la pace con l’Egitto nel ’77 costò il Sinai, con la Giordania nel ’94 l’Aravà. Con gli accordi di Oslo, Israele si ritirò nel ’95 da tutte le città israeliane e si sarebbe ritirata da quasi tutto il West Bank e persino da Gerusalemme se Arafat non avesse lanciato l’Intifada del terrore suicida. Dal Libano, che aveva occupato nel 1982, si ritirò senza contropartite nel 2000. Da Gaza nel 2005, unilateralmente. L’atteggiamento del mondo arabo invece è rimasto quello della conferenza di Khartum tenuta all’indomani della guerra: no alla trattativa, no all’accordo, no al riconoscimento di Israele. La Guerra dei Sei Giorni non ha creato un conflitto, che era già là dal 1948: il mito dei «territori» e dell’«occupazione » come causa scatenante di tutti i mali, ma tutti dimenticano il terrorismo e le guerre precedenti, ignorano volutamente che l’Urss giocò pesantemente sulla guerra dei Sei Giorni. Secondo il recente studio di Isabella Ginor e Gideon Remez, «i sovietici avevano preparato uno sbarco sulle spiagge di Israele e approntato l’attacco di bombardieri e di forze armate navali nuclearizzate». Il loro obiettivo era il reattore nucleare di Dimona, e il mezzo era la provocazione araba. Dopo l’imprevista vittoria di Israele, i sovietici furono quelli che all’Onu - scrive in un nuovo studio lo storico Joel Fish - imposero la condanna come condizione per qualsiasi cessate il fuoco. Da allora, le organizzazioni legate ai partiti dei lavoratori furono ipnotizzate da una campagna che dura tutt’oggi in maniera acritica e pretestuosa per disegnare Israele come aggressore e l’America come un burattinaio. In realtà l’Onu, combattuta, votò la risoluzione 242 che chiedeva a Israele di ritirarsi «da» e non «dai» territori in cambio della sicurezza. La Guerra dei Sei Giorni è stata l’inizio della consapevolezza araba del fatto che Israele non poteva essere spazzata via dalla mappa; è stata la definitiva territorializzazione, nel West Bank e a Gaza, dell’identità palestinese che non aveva mai avuto uno Stato proprio; anche per loro è stata un’opportunità storica; è stato l’inizio della discussione in Israele sulla importanza della profondità strategica del territorio, con la sinistra che la dichiarava nulla, e la destra che vi vedeva una indispensabile dimensione di salvezza, e della discussione fra Pace Adesso e Coloni. Alcuni vedono in questa guerra il momento in cui il fallimento del panarabismo arabo aprì la strada all’islamismo, altri lo identificano nella rivoluzione khomeinista e poi nella sconfitta russa in Afghanistan. Più di tutto, fu la fine del vissuto ebraico legato all’ansia per un incombente sterminio. Quando tornai a Firenze all’Università, dopo la guerra, i miei compagni studenti mi guardavano in modo diverso: non ero più la «loro» ebrea simbolo della lotta contro il nazifascismo, l’ebrea «ricurva» e sofferente della diaspora che piaceva a Natalia Ginzburg, quanto le dispiacevano i «sabre» forti e sfrontati. Non c’erano più pecore, non c’era più macello. Adesso c’era una democrazia che sapeva anche fare la guerra, un popolo bimillenario che voleva vivere nel presente. Ci misi anni a capire che ciò era accaduto sotto ai miei occhi.
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