Dopo la Siria, l'Arabia Saudita Sergio Romano loda anche le teocrazie, non solo le dittature "laiche"
Testata: Corriere della Sera Data: 05 giugno 2007 Pagina: 15 Autore: Sergio Romano Titolo: «Riad più lontana dagli Usa cerca nuovi equilibri e alleanze»
Una tirannia non ha bisogno di essere laica per piacere a Sergio Romano. Dopo aver lodato la Siria babathista, Sergio Romano passa alla monarchia wahabbita, riuscendo a dipingerla come un nemico del fondamentalismo, benché i suoi petroldollari siano il principale finanziamento del fondamentalismo e dell'odio antioccidentale nel mondo. Il rapporti ambigui dei servizi segreti del regno con Al Qaeda, la questione dei profughi palestinesi nel piano di pace del 2002... tutti i punti controversi spariscono dall'orizzonte di Romano, per il quale i saggi sauditi stanno tentando si rimediare agli errori americani, in particolare a quello di aver abbattuto la dittatura di Saddam Hussein.
Ecco il testo:
L'automobile che mi porta in città dopo un volo notturno da Gedda corre a 120 km all'ora lungo un grande viale deserto fra due file di palazzi per uffici, grattacieli, centri commerciali, ospedali, cliniche private, moschee, alberghi, falsi castelli impreziositi da qualche motivo arabo. Sono tutti allineati, l'uno accanto all'altro, come gigantesche maquette di una grande Fiera dell'Architettura Internazionale. Questa è Riad, capitale del regno saudita. Nella città esistono due venerati avanzi del passato: la fortezza Masmak, che i Saud espugnarono con una banda di beduini nel gennaio del 1902, e un rustico palazzo reale in cui Abdul Aziz bin Abdel Rahman Al Saud (meglio noto come Ibn Saud) s'installò prima della proclamazione del regno. Sono conservati con l'amore e l'orgoglio con cui un grande imprenditore appende al muro del suo studio la fotografia del modesto baraccone in cui cominciò la sua attività aziendale. Il resto della città è moderno, con un numero straordinario di edifici lussuosi carichi di marmo, vetro, acciaio e finiture di pregiati legni tropicali. Al cuore di questa capitale dell'architettura moderna e postmoderna, vi è la grande torre Al Faisaliya, che uno dei maggiori architetti britannici, Norman Foster, ha terminato nel 2001. È un grande cono irregolare che sale per 267 metri con una leggera curvatura e ospita uffici, un albergo, ristoranti, un grande centro commerciale e un adeguato numero di luoghi di preghiera per i suoi impiegati e visitatori. Forse, nelle intenzioni di Foster, questa torre è la metafora moderna di un gigantesco minareto. Ma al vertice, là dove il muezzin invita i fedeli alla preghiera, alcuni sceicchi, avvolti nelle loro impeccabili tuniche bianche, parlano d'affari e fumano i migliori sigari del mondo sorseggiando vino analcolico prodotto negli Stati Uniti. Laggiù, nella notte, brillano le luci variopinte (blu, giallo, viola, arancione) di un enorme tappeto arabo disteso sulla sabbia del deserto e abitato da cinque milioni di persone. Fra il Medio Evo della Fortezza Masmak e la torre postmoderna di Foster vi è naturalmente il petrolio. Prima del 1938, quando Ibn Saud affidò a una società americana (la Standard Oil of California) lo sfruttamento di un grande giacimento da poco scoperto, la maggiore ricchezza del Paese erano i due luoghi santi dell'Islam (la Mecca e la Medina), visitati allora ogni anno da alcune decine di migliaia di pellegrini. Grazie a una sorta di Concordato con gli ulema wahhabiti, eredi di un arcigno controriformatore del Settecento, la legittimità dello Stato e la ragione stessa della sua esistenza erano allora strettamente religiose. Ibn Saud regnava perché era sceriffo della Mecca, custode dei luoghi santi, difensore della fede. Ma l'apparizione dell'oro nero e la storica alleanza stretta tra il re e Roosevelt sul ponte di un incrociatore americano nel 1945, hanno cambiato la storia dell'Arabia Saudita e fatto del Paese una specie di Giano bifronte, in parte medioevale e teocratico, in parte audacemente moderno. Il supremo regolatore del difficile equilibrio fra teocrazia e modernità è sempre stato il re: anzitutto Ibn Saud, fondatore del regno e poi, dopo la sua morte nel 1952, i figli Faisal, Khalid, Fahd, Abdullah. È il re che decide quanta modernità (televisione, telecomunicazioni, informatica, borse per corsi di studio in università straniere, insegnamento femminile, creazione di organi rappresentativi) sia compatibile con la natura religiosa dello Stato. Ma è il petrolio, con gli alti e i bassi del mercato, che scandisce, non meno dell'ora delle preghiere quotidiane, i tempi e le esigenze del Paese. Una potenza petrolifera mondiale non può essere una Santa Sede del deserto. Deve avere quadri tecnici, manager, finanzieri, centri di studio e ricerca disposti a parlare con il mondo. Deve adattare le proprie infrastrutture allo sviluppo della propria economia. E deve difendere il proprio territorio e la propria ricchezza dalle insidie dei suoi potenziali nemici. Per quasi mezzo secolo, quindi, lo Stato saudita si è retto sulle sabbie del deserto grazie a due poderosi contrafforti. L'ortodossia islamica gli garantiva legittimità, l'amico americano gli garantiva modernità e sicurezza. L'Arabia Saudita finanziava generosamente le madrasa del mondo musulmano e contribuiva in tal modo alla formazione dei chierici dell'Islam. Mala sua classe dirigente politica, economica e amministrativa veniva formata nei college, nei politecnici, nelle facoltà scientifiche e nelle business school degli Stati Uniti. Il risultato è una élite che veste gli abiti tradizionali della Penisola araba e accarezza con le dita le 33 perline del «rosario» islamico (il tasbih). Ma parla la lingua dei consigli d'amministrazione, delle sedute di Borsa e dei circoli politici occidentali. L'equilibrio cominciò a incrinarsi dopo l'invasione irachena del Kuwait nel 1990, quando re Fahd accolse le truppe americane sul suo territorio e suscitò la collera vendicatrice dell'islamismo radicale. Da allora l'Arabia Saudita ha subito una mezza dozzina di sanguinosi attentati ed è costretta a proteggersi con misure di sicurezza simili a quelle adottate contro il fondamentalismo islamico dai Paesi dell'Occidente. Poi, dopo l'11 settembre, cominciò a cedere pericolosamente anche il secondo contrafforte. Quando si scoprì che gli attentatori erano in maggioranza sauditi (quindici su diciannove), i neoconservatori della corte di George W. Bush sostennero che l'Arabia Saudita era ormai inaffidabile e che gli Stati Uniti avevano interesse a rompere il rapporto petrolifero privilegiato stretto 56 anni prima con il regno dei Saud. Divenne difficile, da quel momento, utilizzare le università americane per le generose borse di studio con cui il governo di Riad finanzia la formazione della sua classe dirigente. I quindicimila studenti sauditi che partono ogni anno per l'estero vanno oggi in Canada, Australia, Nuova Zelanda e alcuni Paesi europei. Nonostante l'ondata di paura e diffidenza provocata dall'assassinio del regista cinematografico Theo van Gogh nel novembre 2004, i Paesi Bassi ne hanno accolto recentemente quaranta. L'Italia, dal canto suo, sembra essere poco interessata e disponibile. Odiato dal fondamentalismo islamico e abbandonato da una parte dell'establishment americano, il Regno è alla ricerca di nuovi equilibri e nuovi alleati. Sul fronte interno, soprattutto dopo la morte di re Fahd nell'agosto del 2005, re Abdullah tenta di modernizzare il Paese e di aprire la funzione alla presenza femminile, ma senza troppo irritare gli arcigni militanti della «Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio» (una polizia religiosa che irrompe nelle case alla ricerca dei venditori di alcolici e ammonisce severamente chiunque osi trasgredire alle regole vestimentarie della modestia islamica). Vi sono state anche elezioni amministrative, ma la parte più conservatrice della dirigenza saudita teme che giovino soprattutto, come in altri Paesi musulmani, ai gruppi meglio organizzati dell'Islam reazionario e non ha alcuna intenzione di allentare le briglie sul collo del Paese. Sul fronte internazionale, invece, il governo del re si muove con maggiore decisione. Abdullah sa di non poter più contare sugli Stati Uniti e ha capito che gli americani creano crisi e instabilità più di quanto non garantiscano sicurezza. E constata con preoccupazione che gli errori americani hanno generato una nuova potenza regionale, l'Iran degli Ayatollah, di cui gli arabi tradizionalmente diffidano. Costretto a uscire dall'ombra in cui il suo Paese aveva l'abitudine di fare la propria politica estera, il re ha anzitutto resuscitato la proposta del 2002 (il riconoscimento di Israele contro il suo ritiro dai territori occupati nel 1967) e l'ha fatta solennemente approvare dai Paesi della Lega Araba. Poi ha preso altre iniziative. Ha cercato di ricomporre l'unità delle fazioni palestinesi. È intervenuto come mediatore nella crisi libanese, in Somalia, in Darfur. Ha dimostrato di essere pronto a sostenere i suoi progetti di pace con qualche generoso finanziamento soprattutto per la ricostruzione del Libano e per il funzionamento dell'Autorità palestinese. Ha cercato di evitare che ogni crisi islamica diventasse un'arma di più nello spregiudicato arsenale del leader iraniano Ahmadinejad. Non basta. Mentre gli Stati Uniti e la Russia si guardano in cagnesco, la visita di Putin in Arabia Saudita, nel febbraio di quest'anno, ha creato, secondo il leader russo, una sorta di partenariato energetico fra i due giganti del petrolio. Se l'America vuole allentare i suoi rapporti con il regno dei Saud, l'Arabia, dal canto suo, dimostra di poter contare su nuovi contrafforti. Non tutto il male, del resto, viene per nuocere. Mentre gli Stati Uniti mettevano a soqquadro con la guerra irachena l'intera regione, il prezzo del petrolio, anche a causa del fallimento della politica americana, andava alle stelle. Dopo la lunga stagnazione degli anni Ottanta e Novanta, l'Arabia Saudita, come tutti gli Stati del Golfo, è ancora una volta prodigiosamente ricca. Il problema oggi non è il denaro, ma il modo in cui usarlo. A un convegno organizzato a Riad negli scorsi giorni da Eurogolfe (un'organizzazione creata nell'ottobre del 2003 da uno studioso francese, Gilles Kepel, e dall'Ecole Française de Sciences Politiques) un rappresentante del Gruppo Rothschild, Lionel Zinsou-Derlin, ha ricordato che lo spazio per gli investimenti (del Golfo nel mondo e delle maggiori potenze finanziarie nel Golfo) si è enormemente allargato. Per dare la misura del fenomeno è sufficiente ricordare che la sola Arabia Saudita ha stanziato per le proprie infrastrutture (acqua, elettricità, strade) 500 miliardi di dollari. Mentre il proscenio è dominato dalle crisi politiche e dal problema della sicurezza, il teatro, dietro le quinte, è popolato da uomini d'affari che cercano di utilizzare nel miglior modo possibile le occasioni offerte da questa nuova ricchezza. E l'Arabia Saudita, anche se l'espressione in questo caso può sembrare blasfema, è la loro Mecca.
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