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La Stampa Rassegna Stampa
05.06.2007 Il problema di Israele non è un eccesso di forza
Benjamin Netanyahu risponde ad Abraham B. Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 05 giugno 2007
Pagina: 13
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Caro Yehoshua sbagli, solo la forza ci salverà»

Dalla STAMPA del 5 giugno 2007. In un colloquio con Francesca Paci Benjamin Netanyahu, leader del Likud, replica alle tesi dell scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua (vedi qui l'articolo pubblicato dalla STAMPA il 3 giugno e ripreso da Informazione Corretta)

Israele comincia oggi la lunga festa per il quarantennale della Guerra dei Sei Giorni, una settimana di parate, conferenze, convegni scolastici sul leggendario comandante Moshe Dayan. Ma a distanza di quasi mezzo secolo si comincia a mettere in discussione l'indiscutibile. Il successo schiacciante dell'esercito israeliano non finirà per rivelarsi una vittoria di Pirro condizionando il futuro della nazione, ostaggio della sua stessa forza? E' la tesi esposta domenica su La Stampa dallo scrittore Avraham Yehoshua: se è vero che il conflitto del 1967 ha spianato la strada alla pace con l'Egitto e la Giordania, osserva Yehoshua, ha però stravolto l’identità israeliana e preparato il terreno a una possibile guerra civile con i palestinesi. Una tesi bocciata senza appello dal leader del Likud Benjamin Netanyahu, il popolare Bibi, ex ufficiale di una delle più prestigiose unità dele forze armate, la Sayeret Matkal, primo ministro dal 1996 al 1999 e probabile futuro successore di Ehud Olmert alla guida del paese.
«Israele vittima della sua potenza? Al contrario, paghiamo il prezzo della nostra debolezza» afferma Netanyahu a margine del workshop «Israel's Right to Secure Boundaries», un seminario sul diritto alla sicurezza organizzato ieri al David Citadel Hotel di Gerusalemme. Il suo ragionamento è matematico, causa ed effetto, una formula che conquista consenso tra gli israeliani delusi dalla politica: «Oggi abbiamo di fronte tre diversi nemici, i miliziani di Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, la Siria. Senza contare l'Iran. Siamo tornati indietro di quarant'anni: dopo la guerra dei Sei Giorni nessun paese arabo avrebbe osato sfidarci». Tutta colpa delle colombe, anime belle ma digiune di strategia militare: «Nel '48 ci attaccarono in sette e vincemmo. Nel '67 ci riprovarono in tre appoggiati dall'Iraq. E vincemmo. Nel '73 erano rimasti in due, sconfitti entrambi, e nella prima guerra del Libano uno soltanto». Se due più due fa ancora quattro, «la chiave della sicurezza è la forza».
La complicata campagna del Libano della scorsa estate ha minato l'aura d'invincibilità israeliana. Bibi Netanyahu sorride, lo sguardo vigile, il pubblico in sala si mette paziente in fila per stringergli la mano: «La più grande vittoria del '67 fu eliminare una volta per sempre il punto di domanda sulla nostra esistenza. Eravamo diventati uno Stato impossibile da conquistare e tantomeno da distruggere. Dopo il ritiro da Gaza e l'ultima avventura libanese amici e nemici s'interrogano di nuovo. Siamo più deboli e questo rende più prossimo un altro conflitto».
Le guerre degli anni 2000 però non assomigliano affatto a quelle del Novecento. Lo scontro è asimmetrico, gli eserciti spesso irregolari, le armi sono variegate, pesanti, leggere, impalpabili: «Gli strateghi moderni hanno capito che quando non puoi vincere il nemico con l'artiglieria devi usare la politica, la comunicazione. Esattamente quel che fece Hitler con i Sudeti, convinse l'opinione pubblica della necessità dell'annessione». Ha un bell'argomentare Yehoshua che prendersi Gerusalemme Est nel 1967 e creare poi miriadi di insediamenti israeliani nel cuore di Territori palestinesi ha esacerbato lo scontro tra i due popoli. La terra è il giubetto antiproiettile d'Israele, replica Netanyahu, difende dai Qassam e dalla propaganda avversaria: «Il mondo arabo ha capito che non può sconfiggerci con le armi e ha lanciato una campagna mediatica diffamante, non sempre contrastata dalla comunità internazionale. Ripetono che controlliamo la vita, l'economia, le città dei palestinesi, mentre noi controlliamo esclusivamente i nostri confini. Ma la menzogna ripetuta ci ha reso vulnerabili».
Il piano di pace saudita è una chance. Netanyahu non crede nei tabù, nel 1998, davanti al presidente americano Bill Clinton, si rivolse a Yasser Arafat chiamandolo «my friend», il mio amico. Dialogo sì, ma una condizione: «Che i palestinesi rinuncino al diritto al ritorno. A Oslo ci avventurammo in una serie infinita di concessioni con il risultato di trovarci di fronte il muro dei profughi». Ancora una volta lo spettro della debolezza. E' la vera lezione della guerra dei Sei Giorni: «Per negoziare devi essere credibile e quando l'interlocutore è un gruppo terrorista o una dittatura la forza dà credibilità. Vogliamo davvero raggiungere un accordo con la Siria? Restiamo a tutti i costi nel Golan».


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