Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Le bugie sulla lobby ebraica, a confronto con la verità sull'alleanza tra Israele e Stati Uniti un articolo di Benny Morris
Testata: Corriere della Sera Data: 04 giugno 2007 Pagina: 1 Autore: Benny Morris Titolo: «Tutte le bugie sulla lobby ebraica. La vera storia dell'asse con gli Usa»
Dal CORRIERE della SERA del 4 giugno 2007:
Nel discorso di commiato nel 1796, il presidente Washington raccomandava agli Stati Uniti di evitare, negli affari esteri, «legami stretti» e «inimicizie ostinate». All'epoca, le sue preoccupazioni si appuntavano sulla Francia rivoluzionaria e sulla Gran Bretagna. Due secoli dopo, George W. Ball, già sottosegretario di Stato, e suo figlio, Douglas Ball, sostenevano nel libro Il legame stretto: il sostegno americano a Israele dal 1947 a oggi (1992) un «rapporto speciale» con Israele, pagando un prezzo carissimo per la posizione dell'America nel mondo, specie nella regione mediorientale. I Ball avevano certamente ragione riguardo l'esistenza di un «rapporto speciale»: benché non vi siano accordi ufficiali di difesa tra i due Paesi, i presidenti americani, a cominciare da John Kennedy (1961-1963), hanno sempre confermato il «sostegno» americano all'esistenza e al benessere di Israele, considerandolo un «alleato stretto» e garantendo la sua supremazia militare sui Paesi arabi confinanti. Dagli anni Sessanta in avanti, gli Stati Uniti sono stati i principali fornitori di armi di Israele; dal 1973 versano a Israele qualcosa come 3 miliardi di dollari all'anno e Israele risulta pertanto il maggior beneficiario dei sussidi americani. Non si può negare che i rapporti tra i due Paesi siano spesso stati caratterizzati da sincera amicizia. I primi ministri israeliani Yitzhak Rabin e Ariel Sharon erano quasi ospiti fissi alla Casa Bianca e nessuno si mostrò più commovente, e commosso, ai funerali di Rabin nel 1995 del presidente Clinton, quando augurò «Shalom, haver» (addio, amico) al leader israeliano assassinato. Ma le cose non sono sempre state così. Sullo sfondo dell'Olocausto, Franklin Roosevelt (1933-1945) di tanto in tanto si qualificava egli stesso come «sionista», ma sapeva equilibrare queste affermazioni con molteplici rassicurazioni al mondo arabo che non era stata ancora presa nessuna decisione definitiva. Roosevelt si spense prima dell'atto finale, lasciando il compito nelle mani del suo successore. Nel novembre del 1947, Truman ordinò alla delegazione Usa presso le Nazioni Unite di votare a favore di una spartizione della Palestina e la creazione di uno Stato ebraico, e di mobilitare (o «costringere», come dissero gli inglesi) gli altri Paesi ad aggregarsi al voto americano. E fu ancora Truman in persona, pochi minuti dopo che David Ben-Gurion ebbe dichiarato la nascita dello Stato di Israele il 14 maggio, ad accordare al nuovo Paese il riconoscimento ufficiale americano. La presidenza Dwight Eisenhower (1953-1961) segnò il punto più basso nei rapporti Usa-Israele. Quando Israele (con Francia e Gran Bretagna) invase l'Egitto nell'ottobre-novembre del 1956, gli americani, con la minaccia di sanzioni politiche ed economiche, costrinsero Israele a ritirarsi dal Sinai (e Francia e Gran Bretagna ad abbandonare l'area del Canale di Suez). Ma da Kennedy in poi, Israele ha goduto del sostegno costante degli Stati Uniti. Gli arabi e i loro simpatizzanti in Occidente da sempre accusano la politica americana di essere manovrata largamente da considerazioni politiche ed elettorali interne. Tuttavia, gli storici e gli analisti politici, dopo aver visionato i documenti in questione, hanno concluso che si tratta di un giudizio semplicistico e fuorviante. È vero che i 5-6 milioni di ebrei americani sono solitamente impegnati politicamente e molto generosi con i contributi alle campagne elettorali. Inoltre, gli ebrei si concentrano negli stati decisivi del collegio elettorale (altamente urbanizzati), quali New York, la California, la Pennsylvania, l'Illinois, ecc., il che rende il loro voto «più pesante» nelle elezioni presidenziali rispetto ai voti degli abitanti del Nevada o del Montana. Questo significa che molti politici americani si sentono obbligati a tener conto del voto ebraico quando esaminano le questioni arabo-israeliane. Tuttavia, emerge un dato curioso. Gli ebrei americani hanno votato massicciamente (70-80 per cento) a favore dei candidati presidenziali democratici, anziché repubblicani, eppure alcuni tra i presidenti più decisamente pro-israeliani sono stati repubblicani (tra cui Richard Nixon, che ordinò una fornitura di armamenti per via aerea a Israele nell'ottobre del 1973, e l'attuale occupante della Casa Bianca, George Bush). Gli ebrei hanno sempre sostenuto una politica liberale — in opposizione alla guerra del Vietnam, per esempio, e all'invasione dell'Iraq — eppure i presidenti che hanno subito questa opposizione (Lyndon Johnson, democratico, e George W. Bush) hanno sempre saldamente appoggiato Israele. Tutti i governi americani, dal 1948 ad oggi, hanno rifiutato di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di trasferirvi l'ambasciata americana da Tel Aviv. Tutti i governi americani hanno condannato l'occupazione dei Territori da parte di Israele, hanno chiesto il ritiro nei confini precedenti l'armistizio del 1967 e hanno osteggiato la politica degli insediamenti. Nonostante questo, si continua a parlare della «lobby israeliana», da ultimo in rapporto all'invasione dell'Iraq del 2003, che i critici attribuiscono all'influenza predominante di ebrei neoconservatori e pro-israeliani presenti nel governo Bush (Douglas Feith, Richard Perle, Paul Wolfowitz). La tesi esplicita o implicita è che questi consiglieri hanno spinto Bush a invadere l'Iraq non tanto per salvaguardare gli interessi americani, bensì per proteggere Israele da Saddam Hussein. Quello che i critici non sembrano notare è che questi uomini sono stati, nel migliore dei casi, dei consiglieri di seconda fila. In prima fila, quella che ha plasmato la linea politica, troviamo Richard Cheney, Colin Powell, Carl Rove e Condoleezza Rice, nessuno dei quali è ebreo né può vantare credenziali pro-israeliane. Tra l'altro, Bush non aveva bisogno dei neocon per sentirsi dire che Saddam e il fondamentalismo islamico erano un pericolo per l'Occidente e per i suoi alleati in Medio Oriente. Saddam, con l'invasione del Kuwait nel 1990, e l'11 settembre, sono bastati a raggiungere quello scopo. Molti europei trovano difficile immaginare che la politica estera americana si ispiri in parte a considerazioni di ordine morale e idealistico, e che altre istanze di natura economica e di Realpolitik vi contribuiscono in modo complementare.La simpatia americana per il sionismo precede addirittura la fondazione degli Stati Uniti e affonda le radici nella visione del mondo dei Puritani, che per primi sbarcarono sulle sponde del Nuovo Mondo. I Padri Pellegrini spesso si riferivano alle colonie da loro fondate con il nome di «Nuovo Sion» (o «Nuova Gerusalemme»). E il ritorno degli ebrei a Sion, ovvero la terra di Israele/Palestina, fu per molti un articolo di fede, il prerequisito per la Seconda Venuta di Cristo. Quando gli ebrei cominciarono a far ritorno, molti americani si stupirono della rinascita della Palestina, una terra rimasta incolta e desertica per secoli sotto il dominio musulmano. Alcuni videro nella Palestina un'altra «frontiera», stavolta colonizzata dai pionieri ebraici. Il fatto che Israele fosse nato da una società di immigrati, come la loro, ribadiva i legami con l'America. Certo, negli anni Quaranta intervenne un evento storico a rafforzare le simpatie americane per il sionismo: l'Olocausto. L'Olocausto fu visto come l'apice di duemila anni di antisemitismo e di oppressione cristiana nei confronti degli ebrei, e tutti i cristiani di buona volontà sentivano che occorreva porvi rimedio. Nel 1947-1948 quel risarcimento prese la forma soprattutto di filo-sionismo politico. Lo scorso anno, due illustri studiosi americani di Scienze Politiche — John Mearsheimer (Università di Chicago) e Stephen Walt (Università di Harvard) — hanno presentato un'analisi comprensiva delle accuse contro la «lobby israeliana». Il loro saggio La lobby israeliana e la politica estera degli Stati Uniti è apparso in Internet e sarà pubblicato come libro a settembre, in forma più estesa. Gli studiosi sostengono che la «lobby israeliana» ha manipolato artificialmente la politica americana in direzione pro-israeliana, anche a scapito degli interessi nazionali degli Usa. Nell'opinione dei due esperti, «l'America è afflitta dal terrorismo in buona parte perché è strettamente alleata con Israele», concludendo che alcuni Stati come l'Iran sono diventati «canaglia» — e hanno intrapreso la corsa al nucleare — e alcuni terroristi come Bin Laden attaccano gli Stati Uniti a causa dell'appoggio a Israele. Gli Stati canaglia come l'Iran, anche se riusciranno a dotarsi di armi nucleari, «non rappresentano una grave minaccia agli interessi vitali degli Usa», affermano gli studiosi. Infine, non esiste alcun «obbligo morale» ad appoggiare Israele, perché non è una «democrazia liberale». Anzi, «Israele è stato fondato come Stato ebraico e il diritto di cittadinanza si basa sul principio di consanguineità». Ad ogni modo, «la sopravvivenza di Israele non è in pericolo...» concludono gli autori. Queste affermazioni e conclusioni sono per la maggior parte completamente false o, nel migliore dei casi, rappresentano mezze verità. La cittadinanza israeliana non è affatto «basata sul principio di consanguineità»: Israele ha più di un milione di cittadini arabi, il 20 per cento della sua popolazione. La sopravvivenza di Israele è minacciata dagli armamenti nucleari iraniani (se verranno prodotti), come pure dall'elevata natalità degli arabi e dal terrorismo islamico. E ovviamente la bomba nucleare iraniana sarà una minaccia mortale per tutti gli interessi vitali degli Stati Uniti che si trovano, o si troveranno, nel raggio dei missili iraniani Shihab IV (tra cui l'Europa occidentale). L'odio degli islamisti contro l'Occidente nasce da tutti i valori che l'Occidente rappresenta — democrazia, liberalismo, rispetto per la vita e per i diritti umani, individualismo, tolleranza, diritti delle donne, libertà sessuale e una tradizione di autocritica — piuttosto che dalle sue azioni. Ad ogni modo, forse il «rapporto speciale» che lega gli Usa a Israele dovrà affrontare tra non molto la prova più difficile: il progetto di armamenti nucleari dell'Iran, che nell'immediato minaccia l'esistenza di Israele, ma che a medio termine mette a repentaglio la sicurezza degli altri alleati americani in Medio Oriente e in Europa occidentale. Nel corso del prossimo anno, avremo modo di vedere di che cosa è fatto realmente questo «rapporto speciale».
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