Saul Bellow Romanzi, volume primo Meridiani Mondadori
L o capivi dagli occhi che Saul Bellow voleva saldare il conto con il vittimismo ebraico. Quel liquido tremolio in fondo alle pupille esprimeva la sua stizza per violini, piagnistei, treccioline e palandrane consunte. È il miracolo del Secolo americano che stravolge gerarchie sociali millenarie: Bellow trascorre la sua adolescenza da emigrato in un miserabile quartiere di Chicago, e se la vive con grinta proprio negli anni della Depressione, quelli in cui Scott Fitzgerald si sbronza per dimenticare il decennio che l'ha consacrato e distrutto. Una frattura che si apre nel cuore degli Stati Uniti nel momento di massima crisi. Fitzgerald è la vittima sacrificale, delicato ubriacone intrappolato nella nevrosi che lo annienterà. Bellow è così sobrio che si permette di ironizzare sul collega: «Le sbornie alla Fitzgerald non erano sinonimo di distinzione in campo letterario». Bellow ci tiene alla forma fisica più che a qualsiasi altra cosa! Spesso intratteneva i suoi intervistatori con il ricordo di una malattia infantile che lo aveva quasi ammazzato: «Chi ha visto la morte in faccia a quell'età è probabile che ricordi quanto ha provato io: il trionfo di averla fatta franca». È il tripudio di chi l'ha sfangata l'arma bellowiana per disinnescare il lamento ebraico? Forse sì. L'America è la Terra Promessa degli ebrei, altro che Israele! Non approfittarne sarebbe un peccato, uno schiaffo a tutti quelli che sono morti. Tale consapevolezza rende gli occhi di Bellow d'una luminosità che se non fosse addolcita da tutta quell'ironia risulterebbe perfino ieratica. Bellow vuole mettere le mani sulla luccicante eredità di Mark Twain e Walt Whitman. In tal modo lui — il piccolo emigrante di origine russa dei sobborghi chicaghesi, colui che i compagni di università mettevano in guardia dall'intraprendere la carriera letteraria perché cosa ne sanno gli ebrei dell'anima anglosassone — dà la sua giudaica interpretazione dello spirito dei Pionieri. Questo sì che è carattere. Devo dire che la foto scelta per il frontespizio di questo primo Meridiano Bellow — lo stringo tra le dita con una certa emozione! — rende merito a quegli occhi spumeggianti di vita e a quella delinquenziale sfrontatezza. Così immagino gli occhi di Augie March, il primo grande personaggio messo in scena da Bellow. Quello che si presenta a noi al grido sciovinista di: «Sono americano, nato a Chicago». Un incipit che basta per fare de Le avventure di Augie March il libro della svolta. «Una dichiarazione di adesione alla vita nella sua molteplicità» come lo ha mirabilmente definito Elèna Mortara. Così Bellow inventa un nuovo tipo di romanzo picaresco in cui le idee e gli impulsi del protagonista sembrano prendere il posto delle azioni, e in cui il paesaggio metropolitano diventa un'intricatissima giungla. L'ambientazione potrebbe ricordare quella di un altro capolavoro: Chiamalo sonno di Henry Roth. Ma la differenza è nel diverso spirito dei narratori. Se le pagine di Roth sono corse dal brivido della più giudaica paura, quelle di Bellow scintillano di spavalderia. Tanto da procurargli non pochi problemi con gli stessi ebrei. «Mi accusavano di essere un fautore dell'integrazione» scriverà molti anni dopo. Guido Fink — curatore del Meridiano, oltre che massimo specialista italiano di letteratura ebraico-americana — ha le idee piuttosto chiare sulla questione. Nella sua bellissima introduzione ci illustra lo sforzo con cui Bellow prova a fondere ebraismo e America in un'alleanza sacra. L'America significa opportunità, insolenza giovanile, spazi sterminati, capitalismo nella sua forma più avanzata, fornitissime biblioteche. Ebraismo sta per cultura biblica, millenaria, ma anche per caos brulicante e Oriente levantino. Mescolate questi elementi e avrete nitroglicerina. Quella che sentiamo esplodere nella rivoluzione stilistica di Augie March, di cui Bellow era il consapevole granatiere: «Pensavo che l'americano fosse diventato schiavo di modelli inglesi... Volevo inventare un nuovo tipo di frase... Una sorta di amalgama tra il linguaggio colloquiale e quello elegante». Non è questo lo spirito della Guerra di Indipendenza mitigato da un accento yiddish? Certo è che questo materiale esplosivo è dannatamente pericoloso. Ti espone alla più temibile delle nevrosi moderne: l'angoscia del fallimento. Se hai grandi possibilità, grandi risorse, grandi aspirazioni, e non riesci a sfruttarle a dovere, allora sei un fallito. È una cosa che i personaggi di Bellow non dimenticano. È la faccia tenebrosa dell'essere americani e dell'essere ebrei di cui Bellow si fa carico. Tommy Wilhelm, protagonista de La resa dei conti (uno dei vertici della narrativa bellowiana), sembra creato apposta per esorcizzare il terrore della disfatta. Lui è l'epitome del fallito. Nessuno più di lui — che trema come una foglia di fronte alla potestà di un padre terribile — dimostra che il successo è tutto: è la prova da esibire alla tua gente che non hai buttato alle ortiche l'opportunità che ti è stata offerta. È la simbolica garanzia della tua buona salute. Se nella sua vita privata Bellow risolve il problema- successo con il trionfo planetario di Herzog, eppoi con il Nobel, nella sua opera, quel fantasma non smette di volteggiare sulle teste dei personaggi come l'angelo sterminatore. È quel demone che li spinge alla follia: Herzog teme di essere pazzo proprio perché, dopo una serie di rovesci, si è ritrovato sull'orlo di una crisi nervosa. Humboldt precipita nel crepaccio della demenza come un novecentesco Re Lear. D'altra parte la pazzia non è altro che la scoria tossica di tutta quell'energia. Una potenza indominabile che, nella seconda metà della vita di Bellow, si fa collera moralista (e anche in questo il destino di Bellow è emblematicamente americano). È il momento in cui il vecchio Saul, che negli anni della giovinezza è stato un trotzkista convinto, indossa i panni del conservatore. Scrive un libro meraviglioso come Il pianeta di Mr Sammler in cui fa a pezzi il pansessualismo anni 60 e l'autoindulgenza dei movimenti studenteschi. Si impegna contro il multiculturalismo delle università americane. Formula giudizi che lambiscono pericolosamente l'intemperanza razzista e misogina. Lotta tenacemente contro i pregiudizi anti- israeliani degli Europei, e contro la loro peculiare forma di lassismo etico: «Quel che la Svizzera è per le vacanze invernali e la costa dalmata per i turisti estivi, Israele e i palestinesi sono per l'Occidente, e per il suo bisogno di Giustizia: una sorta di luogo di villeggiatura morale ». Mi basta pensare all'indegno boicottaggio contro le università israeliane promosso in questi giorni dagli accademici inglesi per capire come questa frase scritta da Bellow nel '77 possegga una fosca attualità. D'altra parte, come ogni sua proposizione, essa rivela tutta l'anima bellowiana: un'ironia che tracima nel sarcasmo, un gusto pirotecnico per l'immagine brillante, un desiderio di occuparsi della realtà e delle idee, una smania di scarnificare il vero, un'energia che si transustanzia in sdegno.