Una riflessione sulla guerra dei sei giorni di Abraham B. Yehoshua
Testata: La Stampa Data: 03 giugno 2007 Pagina: 6 Autore: Abraham B. Yehoshua Titolo: «“Guerra dei 6 giorni Per Israele la madredi tutti gli errori”»
Dalla STAMPA del 3 giugno 2007, riprendiamo l'intervento di Abraham B. Yehoshua sulla guerra dei sei giorni:
Per duemila anni gli ebrei hanno avuto una percezione del tempo mitologica, non storica. Piangevano la distruzione del tempio avvenuta duemilacinquecento anni addietro ma evitavano di analizzare episodi storici accaduti venti o trenta anni prima nei luoghi in cui vivevano. A loro vedere erano i gentili a fare la storia. Il loro destino di popolo eletto era nelle mani di Dio. E il volere di Dio, si sa, è imperscrutabile. Tutto ciò che potevano fare era rappacificare l’Onnipotente osservando i precetti e innalzandogli preghiere. Il sionismo, come scrisse uno dei più grandi studiosi ebrei, Gershom Sholem, ha riportato gli ebrei nella storia. E gli israeliani vivono la propria con grande intensità: analizzano minuziosamente eventi significativi, portano alla luce nuovi documenti e scoprono punti deboli in vecchie verità. Insomma, sono grandi appassionati di storia. E lo dimostra il fatto che in questi giorni, quarant’anni dopo lo scoppio della guerra dei sei giorni il 6 giugno 1967, giornali e periodici sono zeppi di articoli e nelle università si tengono simposi e convegni di studio sull’argomento. La guerra dei sei giorni, congiuntamente a quella di indipendenza del 1948, è ritenuta la più importante e significativa mai avvenuta in questa regione lacerata dai conflitti. Ma fu davvero inevitabile? Giustificata? A mio parere questa domanda ha una duplice risposta. Da un lato la guerra dei sei giorni garantì la sopravvivenza di Israele. Dall’altro la vittoria conseguita ebbe dei risultati inopportuni e deleteri. Com’è noto la guerra non ebbe inizio nel giugno del 1967 ma tre settimane prima, allorché l’allora presidente egiziano Gamal Abd el Nasser concentrò un ingente numero di truppe nel deserto del Sinai, al confine meridionale dello stato di Israele (una zona rimasta fino ad allora praticamente semi demilitarizzata per quanto non in base ad accordi chiari e vincolanti). Contemporaneamente al dispiegamento delle truppe egiziane Nasser intimò agli osservatori di pace dell'Onu - presenti in varie zone della penisola in base agli accordi sottoscritti dopo la campagna del Sinai del 1956 - di ritirarsi. Lungo lo stretto di Tiran gli osservatori avrebbero dovuto simbolicamente garantire la libertà di navigazione delle navi israeliane nel mar Rosso e con la sua iniziativa il presidente egiziano impose di fatto un blocco navale a sud di Israele. La Siria, unendosi alla minaccia egiziana, concentrò a sua volta truppe lungo le sue frontiere. Nessun paese occidentale, nemmeno gli Stati Uniti d’America, si dichiarò pronto ad accorrere in aiuto dello stato ebraico per garantirne la libertà di navigazione. Israele si sentì abbandonato a se stesso, in lotta per la sua sopravvivenza. La presenza di ingenti forze militari di due stati nemici, che da vent’anni proclamavano l’intenzione di distruggerlo, costrinse il suo governo ad arruolare un considerevole numero di riservisti per ingrossare le file dell’esercito. Tale decisione provocò una paralisi quasi immediata della vita e dell’economia della minuscola nazione. Una situazione simile non poteva continuare a lungo. Israele non potè far altro che «sparare il primo colpo» per allontanare la minaccia delle truppe egiziane e siriane dai suoi confini. Ne seguì un conflitto inevitabile e giustificato, che si concluse in un arco di tempo brevissimo e che fu combattuto per garantire la sopravvivenza dello stato ebraico. Il fatto che fosse giustificato ricevette ulteriore conferma dalla risoluzione 242, approvata all’unanimità dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite all’incirca un mese dopo il cessate il fuoco. Nella risoluzione si subordinava esplicitamente il ritiro israeliano dai territori occupati al raggiungimento di una pace «giusta e duratura» all'interno di frontiere sicure (laddove per «frontiere sicure» si intende la smilitarizzazione del Sinai e delle alture del Golan). La guerra dei sei giorni fu dunque all’origine della formula «territori in cambio di pace», che si concretizzò dodici anni più tardi nell’accordo di pace stipulato tra Israele ed Egitto. Una pace che, per quanto fredda, resiste ancora oggi, malgrado gli stravolgimenti in Medio Oriente e lo scontro aperto tra israeliani e palestinesi. Nei quasi trent’anni trascorsi dalla firma dell’accordo nemmeno un soldato è caduto in scontri a fuoco tra le due parti. La formula «territori in cambio di pace» sarà anche la piattaforma per un futuro e auspicabile accordo di pace tra Israele e Siria. Sotto questo punto di vista, come ho già detto, la Guerra dei sei giorni ha rappresentato una pietra angolare nella storia di questa regione sconvolta da guerre e tumulti. Ma nonostante il suddetto conflitto sia stato indispensabile per garantire la sopravvivenza dello stato di Israele, e utile per raggiungere la pace lungo i suoi confini meridionali e orientali, (e forse un giorno anche lungo quelli settentrionali), si è rivelato disastroso per le relazioni tra israeliani e palestinesi, radice e cuore del conflitto mediorientale. Ancora una volta vorrei sottolineare che non furono i palestinesi a dare il via alla guerra dei sei giorni. In veste di residenti privi di diritti civili di Egitto e Giordania ebbero un ruolo di spettatori passivi nello scontro e non presero parte ai combattimenti. Ovviamente speravano con tutto il cuore che l’alleanza araba vincesse la guerra e distruggesse lo stato di Israele, o per lo meno ne ridimensionasse il territorio, e rinfocolarono l’odio contro lo stato ebraico con una propaganda accanita e velenosa. La conquista della striscia di Gaza da parte di Israele, a quel tempo popolata da solo 400.000 palestinesi distribuiti in villaggi e campi profughi, fu un’operazione necessaria da un punto di vista strategico poiché sul suo territorio - a soli settanta chilometri di distanza da Tel Aviv - erano schierate ingenti forze egiziane. La conquista di Gerusalemme Est e della Cisgiordania, dove viveva la maggior parte dei palestinesi, si sarebbe invece potuta evitare. Contrariamente all’Egitto, infatti, il regno di Giordania che controllava quei territori non rappresentava una seria minaccia per Israele, e la sua partecipazione alla guerra dei sei giorni fu puramente simbolica. I rapporti tra Israele e Giordania sono sempre stati complessi. Malgrado la dichiarata ostilità tra i due stati il regno Hashemita, che nel 1948 prese sotto la sua tutela la Cisgiordania e Gerusalemme Est con i suoi siti religiosi, aveva stipulato nel corso degli anni accordi segreti con Israele, diretti a evitare scontri eccessivamente violenti tra le parti. Pur avendo quindi espresso solidarietà a Egitto e Siria, la Giordania non si preparava a combattere, non volendo far divampare una fiamma in una regione tanto pericolosa. Anche lo stato maggiore israeliano era sempre stato riluttante a conquistare la Cisgiordania dove, soprattutto nei campi profughi sorti dopo la guerra del 1948, covava il rancore palestinese. Quando perciò nel primo giorno di guerra l’esercito di re Hussein sparò qualche colpo di cannone a Gerusalemme, più che altro per esprimere solidarietà con le armate egiziane impegnate a sud, Israele avrebbe potuto limitarsi a inviare un avvertimento a re Hussein conquistando una o due colline sovrastanti la Gerusalemme ebraica. Ma i vertici militari di Israele, certi ormai di aver respinto la minaccia egiziana e siriana dopo aver distrutto nel primo giorno di combattimento le loro flotte aeree, decisero di conquistare comunque Gerusalemme Est e, spinti dall’entusiasmo della vittoria, l’intera Cisgiordania, difesa da esigue forze militari giordane. Sferrarono dunque un attacco su tutta la linea, penetrarono in profondità in territorio palestinese, e occuparono aree ricche di memorie storiche ebraiche che avrebbero in seguito stravolto il giovane stato. L’azione militare durò tre giorni. Battaglie cruente si ebbero solo in alcune zone di Gerusalemme e al termine dei combattimenti Israele si ritrovò impantanata nel problema palestinese, un problema che fino a quel momento era stato più o meno neutralizzato dalla Giordania. La ferita della guerra del 1948 si riaprì. L’annessione di Gerusalemme Est alla zona ovest della città e la creazione di insediamenti israeliani nel cuore di territori palestinesi esacerbò lo scontro tra i due popoli che si contendevano lo stesso pezzo di terra. La brace quasi spenta della frustrazione palestinese diventò una fiamma che si propagò per tutto il Medio Oriente. E il dibattito all’interno di Israele sul futuro dei territori conquistati - zeppi di memorie storiche per il popolo ebraico -, creò una spaccatura che in futuro, Dio non voglia, potrebbe persino sfociare in una guerra civile. A partire dal giugno 1967 l’identità israeliana forgiatasi nei primi diciannove anni di vita dello stato cominciò a subire dei mutamenti radicali. Da un lato Israele consolidò il legame con le sue radici storiche ebraiche e con la diaspora, dall’altro sostituì a ideali sionisti principi retrivi della diaspora. Uno degli ideali andati persi fu la nozione di «confine». Se dovessi infatti definire il sionismo con una sola parola sceglierei «confini», e se mi fosse concessa di aggiungerne un’altra, opterei per «sovranità». Il sionismo aveva infatti rivoluzionato l’identità ebraica plasmatasi in duemila anni di diaspora durante i quali, non possedendo un territorio definito, il popolo ebraico era libero di stabilirsi ovunque, senza alcuna responsabilità nei confronti di un territorio sovrano. Israele non annesse la Cisgiordania, conquistata durante la guerra dei sei giorni, e la sua popolazione ancora oggi non è soggetta alle norme legislative israeliane. Eresse tuttavia sul suo territorio numerosi insediamenti, il cui scopo era di evitare la restituzione di quelle zone a palestinesi o giordani. Tale scelta infranse un principio di base di ogni stato sovrano: l’esistenza di confini chiari. Da quarant’anni gli israeliani non sono in grado di disegnare una mappa del loro paese e nella loro identità sono ricomparsi elementi caratteristici della diaspora ebraica: un senso di ambiguità nei confronti del territorio nazionale e di ambivalenza verso il concetto di sovranità. Si ritrovano a fare i conti con un duplice sistema giuridico: da un lato un ordinamento basato su norme di democrazia liberale, dall’altro quello di un regime occupazionale imposto a una popolazione all’interno della quale, contrariamente a quanto avviene in un sistema coloniale, i residenti degli insediamenti ebraici non sono subordinati alle leggi di quel regime. Da qui scaturisce un’altra grave conseguenza: nella coscienza nazionale, soprattutto in quella della destra religiosa, si è gradualmente creata una separazione tra «la terra di Israele» e «lo stato di Israele». Era chiaro infatti che se i territori palestinesi fossero stati assoggettati alle leggi israeliane lo stato ebraico si sarebbe trasformato in uno stato binazionale e, successivamente, in uno stato a maggioranza araba. E poiché, considerando l’alternativa opposta, nessuno potrebbe mai accettare che Israele diventi uno stato in cui vige un regime di apartheid e agli arabi siano negati i diritti fondamentali di cittadinanza, si è venuta a delineare una graduale contrapposizione tra lo stato di Israele e la terra di Israele, laddove gli ultranazionalisti ritengono che siti di importanza storica siano al di sopra dello Stato e delle sue leggi. Già nel primo manifesto da loro pubblicato subito dopo la guerra dei sei giorni e sottoscritto da alcuni dei più illustri scrittori, poeti e intellettuali dell’epoca, sostenevano che il popolo non ha il diritto di restituire i territori conquistati durante la guerra dei sei giorni né alla Giordania né ai palestinesi, in cambio di pace o della smilitarizzazione della zona. Vale a dire che già allora negavano il principio democratico secondo il quale i cittadini sono liberi di decidere il loro destino. Questo principio è anche una delle colonne portanti del sionismo: far sì che ebrei di opinioni e idee diverse siano responsabili gli uni degli altri nel contesto di uno stato sovrano e decidano il loro destino in base alle scelte della maggioranza, qualunque esse siano. Gli insediamenti sorti nei territori occupati hanno accentuato le differenze tra la terra di Israele e lo stato di Israele e inasprito il conflitto tra nazionalisti religiosi e la maggioranza laica. E malgrado nella striscia di Gaza gli insediamenti siano stati smantellati un paio di anni fa, la reazione violenta dei palestinesi rientrati in possesso dei loro territori dimostra quanto sia difficoltoso perseguire un’analoga linea politica in Giudea e in Samaria. In conclusione: la schiacciante vittoria di Israele nella guerra dei sei giorni ha avuto una conseguenza positiva e una negativa. Da un lato ha spianato la strada alla pace firmata con Egitto e Giordania secondo la formula di «territori in cambio di pace» (nella speranza che una pace analoga possa essere siglata al più presto con la Siria e il Libano). Dall’altro ha stravolto l’identità israeliana e preparato forse il terreno a una possibile guerra civile allorché, in futuro, Israele dovrà decidere la divisione della regione in due stati.
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