"La parola non è sufficiente di per sé, ma va inserita ogni volta nel contesto più ampio della frase. Singolarmente le parole sono innocenti, non portano colpa. Tuttavia possono essere collocate in un buon contesto o in un cattivo contesto" dichiara Abraham B. Yehoshua in un intervista ad AVVENIRE del 2 giugno 2007.
Un esempio di collocazione della parole in un "cattivo contesto": quando lo scrittore israeliano dichiara "esistono frasi che non sono mai state interpretate correttamente e che non corrispondevano alla realtà, tipo "gli ebrei sono sempre stati perseguitati", oppure "il mondo è contro di noi", ancora riferito agli ebrei" e il giornale cattolico sintetizza nella titolazione "Yehoshua: gli errori di noi ebrei " , "«Non è vero che siamo sempre stati perseguitati, né che il mondo è contro di noi»: parla uno dei massimi scrittori israeliani. " si ha l'impressione che una protesta, piuttosto indeterminata, contro la generalizzazione di fatti comunque reali, diventi un'arma polemica contro un presunto "vittimismo" ebraico e per una facile assoluzione delle tradizioni antisemite del cristianesimo.
Sì può dissentire dalle posizioni politiche di Yeoshua, piuttosto autolesioniste quando dimenticano che Cisgiordania e Gaza sono state conquistate da Israele nel corso di una guerra difensiva, e che poi Israele non ha mai trovato interlocutori per una trattativa di pace. Circostanze che rendeno improponibile il paragone con l'occupazione dell'Algeria francese.
Ma è certo che l'interlocutore dello scrittore israeliano dà prova di faziosità e di pregiudiziale ostilità a Israele formulando l'unica domanda dell'intervista incentrata sull'attualità politica in questi termini: "Tra le critiche che vengono rivolte più spesso alla politica degli israeliani verso i palestinesi c'è quella di antisemitismo. Come giudica un simile atteggiamento?"
Ecco il testo:
Arriva in camicia nera, con due penne che fanno capolino dal taschino. Si siede e attacca a chiacchierare. Senza retorica, come se stesse in mezzo a visi amici, visti da sempre. Di tanto in tanto, dall'ugola gli spunta una punta di orgoglioso raffreddore. Nel tardo pomeriggio, Abraham Yehoshua dovrà poi incontrare un pubblico più vasto, che lo attende con la solita impazienza mista a curiosità. Invitato a Bergamo dall'associazione «Sinapsi», nell'ambito del ciclo di conferenze intitolato «Lo sviluppo (in)sostenibile», lo scrittore israeliano approfondirà il tema della questione morale in letteratura. Bell'argomento, davvero. Di quelli da rifarsi le orecchie per un po'. Ma ora è presto. Ancora troppo presto. E il paziente autore di Cinque stagioni - di cui è in cantiere la traduzione italiana di Duet, suo ultimo romanzo - si concede nuovamente al tiro incrociato delle domande.
Che cosa le hanno insegnato le parole? L'hanno mai delusa?
«La parola non è sufficiente di per sé, ma va inserita ogni volta nel contesto più ampio della frase. Singolarmente le parole sono innocenti, non portano colpa. Tuttavia possono essere collocate in un buon contesto o in un cattivo contesto. Nel corso della mia vita ho capito che esistono frasi che non sono mai state interpretate correttamente e che non corrispondevano alla realtà, tipo "gli ebrei sono sempre stati perseguitati", oppure "il mondo è contro di noi", ancora riferito agli ebrei. Questo non è vero, non è una frase corretta da dire. Gli ebrei non sono stati cacciati ma hanno lasciato la terra dove vivevano più di duemila anni fa».
La conoscenza della storia può aiutare gli uomini a non ricadere negli stessi errori del passato?
«Sì, si può imparare dalla storia del passato. Se Israele, ad esempio, avesse avvertito per tempo le conseguenze prodotte dall'invasione francese in Algeria, si sarebbe comportato diversamente. Nel mio libro La sposa liberata, descrivo proprio questa realtà. Non credo sia possibile dominare pienamen te una popolazione. Si può conquistare un territorio, ma non stabilire degli insediamenti all'interno di una zona occupata. Lo sbaglio di Israele è stato di non aver saputo far tesoro della lezione del passato. Per comprenderla in modo adeguato, la storia ha bisogno anche di essere analizzata. Essa inevitabilmente si ripete, e il genere umano ricade sempre negli stessi errori».
Tra le critiche che vengono rivolte più spesso alla politica degli israeliani verso i palestinesi c'è quella di antisemitismo. Come giudica un simile atteggiamento?
«Sulla politica di Israele sono state fatte molte critiche, e diverse anche legittime, però penso che questa sia esagerata, se non addirittura errata. Tante volte, e da più parti, ci è stato detto: "Vi comportate come nazisti. La vostra politica è antisemitismo". Mi sembrano accuse eccessive e del tutto infondate. Nei cinque anni della seconda Intifada, durante gli scontri sono stati uccisi quattromila palestinesi, compresi i civili, e mille israeliani. Sulla base di tali cifre si può ribadire: "Certo, gli israeliani sono molto più forti e i palestinesi più deboli. Per questo i numeri sono così diversi". Però è comunque sbagliato parlare di nazismo e di antisemitismo, perché le due situazioni non sono per nulla raffrontabili. Se si usa la parola nazismo così spesso, va a finire che poi si riduce l'effettiva portata delle atrocità perpetrate da Hitler e i suoi seguaci. Anche affermare che gli americani in Iraq si sono comportati con un atteggiamento di tipo nazista è fuorviante. Nessuna crudeltà si sia verificata in seguito nel mondo può essere paragonata all'orrore perpetrato dai nazisti in Germania».
In letteratura esistono dei confini, dei limiti oltre i quali non si è consapevolmente mai spinto?
«Parlando dell'arte in generale, bisogna dire che oggi ci sono talmente tante possibilità sia per quanto riguarda l'utilizzo dei materiali in pittura, sia per ciò che concerne l'impiego di nuovi strumenti in campo musicale, che è d ifficile non oltrepassare i confini che si avevano in passato. Anzi, sembra che qui i confini siano fatti apposta per essere superati. Sempre. Tutte le opere d'arte si sviluppano e definiscono la propria struttura all'interno di un determinato contesto, dunque nell'ambito di certi confini. Per quanto mi riguarda, quando mi accingo alla stesura di una nuova opera so già esattamente quali saranno la forma e i contenuti. Questo è il mio modo di procedere. Naturalmente ci sono artisti che hanno un metodo di lavoro completamente differente, e che iniziano a scrivere senza sapere dove poi andranno a parare. Tutti gli approcci sono possibili, ma quest'ultimo non l'ho mai adottato perché mi è poco congeniale».
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