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Avvenire Rassegna Stampa
01.06.2007 Omicidio Hariri: il tribunale internazionale pone fine all'impunità delle dittature arabe
Damasco lo ha capito benissimo, e ha subito alzato il livello della minaccia

Testata: Avvenire
Data: 01 giugno 2007
Pagina: 2
Autore: Giorgio Ferrari
Titolo: «Finita l'impunità araba una data importante»
Da AVVENIRE del 1 giugno 2007:

Fra dieci giorni prenderà formalmente vita il Tribunale internazionale istituito dall'Onu mercoledì sera con la risoluzione numero 1757, che dovrà giudicare i presunti colpevoli dell'omicidio del premier libanese Rafic Hariri. La piccola Norimberga che il governo di Fuad Siniora si è guadagnato sul campo non è esente da rischi. Molto sangue è stato già versato, sangue di gente comune e sangue eccellente: l'ultimo delitto di grande risonanza è stato l'assassinio del figlio di Amin Gemayel, giovane ministro del gabinetto Siniora. Da quel giorno di novembre l'attività del governo libanese è rimasta paralizzata, insieme a quella del Parlamento.
Un intreccio di fazioni, di veti incrociati, di sinistre minacce strangola il Paese dei cedri fin dalla ritrovata indipendenza con il ritiro della Siria nel 2005. E proprio Damasco, a pochi minuti dal voto del Palazzo di Vetro, già faceva sapere che questo tribunale rischia di dividere ancor più profondamente il Libano. Messaggio quanto mai trasparente nella sua brutale allusività: quei campi ribollenti di odio vicino a Tripoli, quelle autobomba che esplodono nella notte in vari quartieri di Beirut - lasciano intendere - sono solo il preannunzio di quello che potrà accadere, visto che i principali imputati nell'inchiesta sulla morte del premier Hariri sono generali dei servizi di sicurezza legati a filo doppio alla Siria di Bashar el Assad.
Eppure, nonostante questi proclami - che parafrasando Manzoni hanno l'aria di dire: "Questo processo non s'ha da fare, né domani né mai" - lo sventolio delle bandiere, il suono dei clacson, le scintille dei fuochi gioiosi che hanno colorato il cielo notturno di Beirut, di Sidone, di Tripoli testimoniano a nostro avviso l'ingresso solenne del Libano nell'area del diritto internazionale, dove le dispute si risolvono non con l'esplosivo al plastico o con l'omicidio di un ministro ma con le armi delle leggi e del dialogo.
In molti tenteranno di spuntare queste armi, di gettare discredito sul la Corte, di presentare il Tribunale internazionale come lo strumento degli interessi americani, di minimizzare la portata delle sue sentenze. Forse riusciranno anche a ritardarne l'impiego, forse altro sangue scorrerà per le strade. Ma ciò che Damasco, Teheran e tutte le capitali dell'intolleranza mediorientale dovrebbero segnare sulla loro agenda è proprio questa data, il 30 maggio 2007: una data simbolica, provvista di una sua laica sacralità, perché per la prima volta - dopo trent'anni di lutti senza giustizia - proclama la fine dell'impunità, smascherando quel perverso circolo vizioso di chi pretende di non essere giudicato e minaccia di fare terra bruciata se qualcuno dovesse provare a farlo.
Il Tribunale internazionale, ha detto il premier Siniora e con lui i leader dei partiti al governo, non è contro la Siria né contro nessuno. Sta solo cercando la verità. Per questo quella ottenuta l'altra sera al Palazzo di Vetro è senza dubbio una vittoria, non solo del Libano, né dei francesi, principali artefici del compromesso raggiunto all'Onu grazie anche al contributo italiano. I primi a rendersene conto sono proprio coloro che hanno subito alzato il livello della minaccia.

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