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Il Manifesto Rassegna Stampa
01.06.2007 Un allievo di Said spiega che il sionismo è antisemitismo
quando l'ideologia cancella la storia, i fatti e la ragione

Testata: Il Manifesto
Data: 01 giugno 2007
Pagina: 0
Autore: Filippo Del Lucchese - Jason Smith
Titolo: «Una alleanza «abramica» contro il conflitto tra arabi e ebrei»

Il MANIFESTO del 1 giugno 2007 pubblica un'intervista a Gil Anidjar. Docente di lingue e culture mediorientali alla Columbia University, tempio dell'antisionismo accademico statunitense, allievo delle star del nichilismo filosofico Jacques Derrida e Judith Butler, amico di Edward Said, il propagandista palestinese che ha descritto il sionismo come la sintesi di tutti i mali e i crimini dell'Occidente, Anidjar si occupa, ci informa il titolo del quotidiano comunista, di promuovere "un alleanza abramica contro il conflitto tra arabi e ebrei ".
L'intensto pacifista si rivela subito, nel corso dell'intervista, il paravento di interessi ideologici di diversa natura.
Anidjar parte dal falso presupposto (dovuto a Said) della coincidenza storica tra odio per gli ebrei e odio per gli arabi.
Non si tratta di storia, ma di manipolazione della storia a fini politici. Ma il risultato che Anidjar (come già Said) ne ricava è di rilievo, ancorché contraddittorio. Sulla base della storia immaginaria di Said si deduce contemporaneamente che gli arabi non possono essere antisemiti  e che il sionismo è una forma di antisemitismo. Tra l'altro, anche perché vorrebbe "svuotare" l'Europa degli ebrei. Nessuna distinzione, evidentemente, è possibile nella mente di Anidjar tra la volontaria emigrazione degli ebrei in Terra d'Israele per fondarvi e far vivere un loro Stato, e l'espulsione violenta, o lo sterminio, voluti dagli antisemiti.
Non è l'unica distinzione che, dal suo punto di vista,  di, pretesa,  superiore criticità, viene a cadere. Un'altra è quella tra cristianità e società occidentale secolare moderna. Quest'ultima sarebbe  solo un mascheramento della prima. Lo stesso secolarismo sarebbe soltanto un'invenzione utile per giustificare l'espansione coloniale e l'assoggettamento delle altre civiltà a quella cristiana. La distinzione tra Stato e Chiesa ( o religione in genere), dunque, non sarebbe un principio di civiltà, ma solo un trucco per giustificare il dominio su  società che la rifiutano.
Non si sarebbe potuto esprimere meglio la natura fondamentalmente islamista del pensiero antioccidentale, pretesamente laico,  del maestro di Anijdar , Said.
Un' altra distinzione che cade è quella tra ebrei e arabi, che sarebbe un'invenzione ideologica, appunto, della cristianità allo scopo di dividere l'unico oggetto della sua volontà di dominio.
Ma in realtà il divide et impera denunciato da Anijdar è tutto nella sua implausibile costruzione intellettuale. E' lui a operare una divisione inaccettabile. Non tra ebrei ed arabi, ma tra gli ebrei vittime dell'antisemitismo europeo, che egli assimila agli arabi colonizzati, e gli ebrei che in Israele hanno costruito una loro patria e una lòro autonomia politica, che al contrario sono per lui parte dell'Occidente del suo sistema di dominazione, gli ebrei divenuti carnefici
In realtà questi ebrei sono le stesse persone, o sono gli uni i discendenti degli altri. Sono lo stesso popolo, sono l'oggetto dello stesso odio, che non è confinato all'Occidente, ma ha attecchito anche in Medio Oriente. 
In realtà, Israele è la risposta  all'antisemitismo, fenomeno che ha altre e più profonde radici rispetto alla breve storia del colonialismo, e insieme alle mai cancellate aspirazioni nazionali degli ebrei.
E il rifiuto della sua esistenza è la forma odierna dell'odio antiebraico.

Ecco il testo: 


Quella del divide et impera è sempre stata una delle tecniche di «governo» più potenti nelle mani di ogni oppressore. Più il nemico è diviso, più è ridotta la sua capacità di resistenza. Ma questa impresa non è solo una banale, per quanto efficace, strategia di controllo. Talvolta può assumere la forma di una vera e propria ideologia o venire perfino elaborata in un potente progetto di «civilizzazione». In questa luce è possibile, ad esempio, leggere un conflitto come quello palestinese, mettendo in evidenza le responsabilità storiche del colonialismo europeo e chiarendo il ruolo della religione come fattore politico nell'epoca globale. Sono questi i temi che Gil Anidjar, docente di lingue e culture mediorientali alla Columbia University, allievo di Jacques Derrida e Judith Butler, sviluppa nelle sue opere, attraverso una indagine al tempo stesso concettuale e di carattere etnografico.

Lei ha avuto un rapporto molto stretto con Edward Said, del quale ha proseguito il lavoro. Può spiegarci come si articola questa continuità?
Il pensiero di Said ha sempre avuto per me una enorme importanza. Credo di essergli rimasto «fedele» nel tempo, imparando da lui a decifrare la storia comune dell'Orientalismo e dell'antisemitismo. Da lui ho anche appreso che il secolarismo è un'invenzione cristiana, uno dei momenti dello sviluppo interno dell'Occidente, che coincide con la «scoperta» delle altre religioni. Questa dinamica ha operato per trasformare il regno cristiano, che è sempre stato qualcosa di più di una semplice «teologia», in una serie di «progetti» culturali diversi. La cristianità, per come si era formata in Europa occidentale nel corso del Medio Evo, non era soltanto una dottrina religiosa. Era il coagulo di sistemi che costruivano il senso del regime legale, economico, politico corrente. Ha avuto una grande capacità di trasformarsi e rinnovarsi, più volte esercitata nel corso dei secoli (la Riforma protestante è uno degli esempi maggiori, la cosiddetta «secolarizzazione» un altro). In ogni caso, una piccola parte del mondo è riuscita a imporsi su tutto il pianeta grazie alle sue risorse militari, economiche e teologico-politiche. Il problema non è la «religione» in quanto tale, ma il cristianesimo (che si è sempre considerato l'unica «vera» fede) e la sua eredità, di cui il capitalismo fa naturalmente parte.

Nel suo ultimo libro «L'ebreo e l'arabo: una storia del nemico», lei sostiene che queste due figure, nel contesto politico globale, non possono essere considerate separatamente. Qual è stato il ruolo che l'Europa ha giocato nel costruire questa separazione culturale e politica?
È la storia di una vera e propria «costruzione» del nemico. Ci sono stati momenti in cui non esisteva distinzione tra l'ebreo e l'arabo, entrambi collocati nella categoria dei «semiti». Ma in seguito, la storia coloniale e teologica (fondamentalmente cristiana) ha prodotto quella spaccatura. Mi domando se altre spaccature, come ad esempio quella attuale fra antisemitismo e islamofobia, oppure quella corrispondente che intende separare l'olocausto e il colonialismo, non siano in realtà la continuazione di quella medesima impresa. L'affermazione, ad esempio, per cui l'islamofobia è in qualche modo giustificata dal suo esser parte di una più ampia lotta contro l'antisemitismo, risponde alla tradizionale logica del divide et impera. Nella contrapposizione degli ebrei agli arabi si pretende che l'Occidente cristiano (e lo Stato moderno) non abbiano giocato alcun ruolo, ma ovviamente non è così.

Lei ha parlato di «febbre sionista» non soltanto identificando questo fenomeno con un progetto coloniale specificamente europeo, ma indicando anche un «antisemitismo tipico del sionismo». In che modo il sionismo può rappresentare una potenziale distruzione dell'intero ebraismo?
La questione principale è quella dell'investimento occidentale sulla Palestina, intesa come luogo di origine del cristianesimo. Ora, non è una scoperta che il sionismo abbia avuto origine nell'Europa cristiana e che sia il risultato, inoltre, di una radicale trasformazione dell'ebraismo, che ha accompagnato la riconfigurazione di entrambe le parti della disputa teologica nella cosiddetta «tradizione giudeo-cristiana». Il sionismo, da questo punto di vista, è in linea con il sogno antisemita di un'Europa libera da ebrei (e da mussulmani: un'impresa che ha ugualmente caratterizzato, in diverse forme, i secoli passati), considerati ora una «razza», ora una «religione». Cos'altro rappresenta l'«emancipazione», in questo sogno nazionale e nazionalista? Solo la mortificazione e la distruzione di una ricchissima tradizione a una categoria etno-religiosa. Non dimentichiamo inoltre che, seguendo il diritto coloniale, lo Stato di Israele distingue tra gli «ebrei», gli «arabi» e gli altri. Un'identità che considera come prepolitica e legata alla «nazionalità», in quanto distinta dalla «cittadinanza». Sulla base di questa distinzione si fonda la distribuzione ineguale dei diritti. E questa è soltanto una delle eredità coloniali dello «Stato del popolo ebraico». Il progetto nazionalista equipara così il giudaismo al sionismo: un'equazione esplicitamente posta ma al tempo stesso accusata di portare all'antisemitismo. Bisogna naturalmente essere cauti nell'amalgamare i due fenomeni, ma ho l'impressione che i legami genealogici tra sionismo e antisemitismo siano numerosi.

Per contrastare questa separazione costruita tra ebrei e arabi, lei ha evocato la possibilità di un'alleanza «abramica». Che cosa intende esattamente con questo concetto e quali sono le sue implicazioni politiche?
Traggo questo argomento dalla riflessione di Derrida sull'«abramico» (in particolare nel suo saggio su «Fede e Sapere») e su ciò che egli spiega come la fondamentale «latinità» - ossia cristianità - del concetto stesso di religione. Derrida ha cercato di leggere i tre monoteismi non come una pacifica convivenza tra eguali, ma neanche attraverso il cosiddetto «scontro di civiltà». Riconfigurando il rapporto fra le tre figure del monoteismo, Derrida è in grado di criticare l'ineguaglianza e il dominio egemonico del cristianesimo occidentale, che dura ancora oggi. Sulla base della distinzione fra religione e politica, prolungata in quella tra ebrei e arabi, l'Occidente ha portato caos e distruzione sull'intera faccia della terra. Diffondendo i propri sistemi legali ed economici e applicando i canoni della propria razionalità conoscitiva, ha scavato fossati e tracciato confini che costituiscono l'eredità del cristianesimo e della sua missione civilizzatrice. Ebrei e arabi sono soltanto due delle molte figure di questa separazione. Possiamo trarre una lezione da questa storia e da ciò che Walter Benjamin chiamava la «tradizione degli oppressi», solo a patto di riconoscere il nemico per ciò che è, vale a dire come un conquistatore. I muri infami che circondano oggi la «Fortezza Europa», gli Stati Uniti o Israele sono strumenti di una guerra - economica, giuridica e religiosa - intrapresa contro i poveri e le «razze» dalla pelle scura. Sono muri di separazione ma anche di vera e propria «aggressione».

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