A quarant'anni dalla guerra dei sei giorni ricostruzioni storiche e analisi sul futuro d'Israele
Testata: Il Foglio Data: 29 maggio 2007 Pagina: 1 Autore: Carlo Panella - Rolla Scolari - Amy Rosenthal Titolo: «La storia dei Sei giorni è stata scritta dai vincitori (sovietici) - Crisi di leadership - Sei giorni in 40 anni»
Dal FOGLIO del 29 maggio 2007, un articolo di Carlo Panella:
Il più grande successo politico dell’Urss si misura ancora oggi, a 40 anni dalla Guerra dei sei giorni. Nel 1967, i palestinesi e gli arabi erano i vietcong, gli israeliani erano lacchè degli yankee: questo si leggeva sulla stampa comunista del mondo, Unità in testa. Invece, Nasser era l’aggressore: aveva scacciato i soldati dell’Onu e bloccato lo stretto di Tiran, atto di guerra, addirittura sotto il profilo legale. Nasser eccitava le masse arabe al grido “distruggiamo Israele”, con le stesse, identiche parole di Ahmadinejad oggi. L’enorme area di opinione pubblica condizionata dalla disinformatja sovietica, fusa con quella degli antipatizzanti cattolici d’Israele, non si scandalizzava. Se non si ha presente che Nasser e i paesi arabi avevano sviluppato dal 1948 al 1967 lo stesso, identico progetto strategico di oggi di Ahmadinejad, non si comprendono gli ultimi 40 anni in medio oriente. Vinta la guerra, il governo di Israele propose, il 19 giugno 1967, il ritiro dai territori conquistati, il Sinai e le alture del Golan. Anche questo viene dimenticato dai soviettisti e “progressisti”. Naturalmente il ritiro era condizionato al riconoscimento di Israele. Condizione ovvia. Ma Israele è abitata da ebrei e, a quanto pare, gli ebrei non hanno il diritto di chiedere di essere riconosciuti come tali: vecchia questione che unì sempre più larghi settori di opinione pubblica postconciliare alla regia soviettista. Si unì al coro coro il generale De Gaulle, che pure aveva armato Israele e che, quando Gerusalemme si rifiutò di ritirarsi senza condizioni, come lui pretendeva, il 27 novembre 1967 in una conferenza stampa scandalizzò il mondo con quest’accusa: “Les juifs: un peuple d’élite, sûr de lui-même et dominateur”. Raymond Aron scrisse: “Quelle parole autorizzavano solennemente un nuovo antisemitismo”. Il successo sovietico non fu solo mediatico. Fu politico. Dopo il 1967, infatti, Mosca compì una scelta strategica dissonante dalla sua strategia globale: decise che l’Egitto non era più affidabile – anche se continuò a investirvi in armamenti – e lavorò per sottrargli la leadership nella questione palestinese e affidarla a una nuova Olp. Mossa “di movimento”, di marca castrista, non suffragata neanche dai regimi baathisti – pure clientes sovietici – che odiavano Arafat e che costò addirittura la rottura delle relazioni con l’Egitto di Sadat. Mossa che assegnava alla Palestina il ruolo permanente di punto di attrito e mai di coesistenza pacifica nelle relazioni bipolari. Il discorso trionfale del leader dell’Olp all’Onu nel 1974 rese evidente il pieno supporto sovietico a un leader terrorista di cui nessun paese arabo si fidava. La mossa sovietica, dunque, rese irrisolvibile la questione palestinese e la trasformò in un formidabile strumento di pressione sulla giugulare petrolifera di Europa e Stati Uniti. E’ vero che in Israele era forte – ma minoritaria – la componente sionista che voleva una Eretz Israel che comprendesse Sinai e Cisgiordania (e altro ancora, magari). Ma è altrettanto vero che il leader storico di quella componente, Menahem Begin, anticipò infine non solo ad Anwar al Sadat ma a tutti i leader arabi quello che oggi è definito “piano saudita”: restituzione dei Territori in cambio del riconoscimento di Israele. Riconoscimento che Sadat ebbe il coraggio di fare “prima”, non “dopo” la trattativa, riconoscendo agli ebrei di essere uguali a tutti gli altri, di non dovere fare concessioni per avere riconosciuto il diritto di restare in vita (come invece vuole il piano saudita). In mezzo c’era stata la guerra del Kippur, la prima che non puntava a distruggere Israele ma a trattare con Israele. C’era stata, nel ’72, la rottura dell’Egitto di Sadat con l’Urss e l’espulsione dei suoi consiglieri militari. Nel ’79 Begin e Sadat si mossero – per la prima e ultima volta da parte araba – nella logica di “pace contro terra”. Ma quel ritiro dai Territori, che vi fu, ma solo nel Sinai, s’infranse sul nodo dell’Olp (e quindi dell’Urss). Né Begin né Sadat erano disposti ad affidare i Territori a un’organizzazione terrorista che proclamava la volontà di distruggere Israele. Firmarono una road map che puntava a un autogoverno palestinese in Cisgiordania e a Gaza (ma Sadat rifiutò l’offerta di restituzione all’Egitto della striscia), basato su un processo elettorale. L’Urss guidò il fronte del rifiuto, Arafat disse che Sadat avrebbe pagato con la morte quella firma e fu accontentato. Fallito quel tentativo, tutto marcì. Arafat fu riconosciuto come unico leader palestinese dall’Europa (non dagli Usa, sino al 1993) e fu la rovina. Lo si comprese nel 2000, quando rifiutò il 97 per cento dei Territori offerto da Israele, tornò a casa facendo la V di vittoria con le dita, lanciò l’Intifada delle stragi. Morto Arafat, le elezioni palestinesi hanno svelato il mistero della sua leadership devastante: Abu Mazen e Hamas hanno incarnato, separati, le due linee che Arafat ha sempre tentato di far convivere, pasticciandole, scaricando le tensioni conseguenti in atti di terrorismo. Si è visto che la linea primeva, quella che vuole la distruzione di Israele, quella del Gran Muftì, della Lega araba del ’48, di Nasser del 67, di Arafat del 2000, di Hamas nel 2005, era ed è maggioritaria. La linea nazionalista, quella che combatte Israele, ma solo per la terra, pronta poi alla pace, al riconoscimento di Israele, quella di Rajub Nashashibi, di re Abdullah I° di Transgiordania, di re Hussein, di Sadat, di Abu Mazen nel 2005, era ed è minoritaria. Ma l’eredità soviettista è dura a morire e oggi si fa finta ancora di credere che la volontà maggioritaria dei palestinesi sia la restituzione della terra, mentre è sempre stata quella d’impedire che gli ebrei “porci e scimmie” avessero il loro stato.
Di seguito, un'intervista a Fiamma Nirenstein:
Gerusalemme. E’ ottimista sul futuro della leadership israeliana, Fiamma Nirenstein, giornalista del Giornale, anche se dopo la pubblicazione, qualche settimana fa, dei risultati della commissione Winograd sui primi giorni della guerra estiva tra Israele e Hezbollah, avrebbe voluto le dimissioni di Ehud Olmert e del suo governo. Il primo ministro è invece ancora al comando e aspetta di sapere chi sarà il vincitore delle primarie dei laburisti, maggiori alleati nella coalizione di governo. Dopo Winograd, diversi membri di Avoda hanno minacciato il possibile ritiro dell’intero gruppo dalla compagine dell’esecutivo. Significherebbe nuove elezioni. I due favoriti sono il deputato Ami Ayalon e l’ex premier Ehud Barak. Il primo promette di rimanere in coalizione soltanto se Olmert si dimette. Il secondo fa invece sperare il primo ministro, che lo vorrebbe responsabile della Difesa. Vorrebbe anche Netanyahu alle Finanze, in un governo d’unità nazionale che giustificherebbe con l’emergenza a Sderot, colpita nelle ultime settimane da centinaia di razzi Qassam palestinesi, e con i raid dell’esercito contro Hamas a Gaza. “Io spero che nell’angolo si stiano scaldando Ehud Barak e Benjamin Netanyahu – ha detto Nirenstein al Foglio – due leader di prima categoria”. La leadership israeliana è in crisi, lo hanno capito tutti i giornali internazionali, ne è conscio Olmert che è al minimo storico nei sondaggi. Herb Keinon sul Jerusalem Post scriveva però ieri che il premier rimane “manager in chief”, che in mancanza di leadership si prepara a costruire “una squadra di leader”. Quella che ha in testa è formata da lui, Netanyahu e Barak. La crisi della classe dirigente israeliana è stata ufficializzata da “un rapporto scabro, in linguaggio non politichese proprio per essere accessibile a tutti – spiega Nirenstein – quei cinque vecchietti (i giudici che hanno portato a termine l’inchiesta che ha imputato a Olmert fallimenti nell’esercitare la responsabilità e la prudenza, ndr) che fanno diventare rossi e piangere il premier e i suoi compagni, che sollevano la piazza sono innanzitutto un magnifico esempio di democrazia”. In seguito alla politica dell’unilateralismo, avviata dall’ex primo ministro Ariel Sharon e culminata con il ritiro da Gaza nell’agosto 2005, Israele ha cercato la normalità. Per Nirenstein, che ha appena terminato di scrivere il suo ultimo libro, “Israele siamo noi” (Rizzoli), “questa commissione ha mostrato al paese di essersi illuso immaginandosi normale. Israele deve avere una leadership eccezionale, capace di affrontare questo terribile destino: l’essere circondato da nemici”. Oltre a prepararsi per una possibile nuova guerra al confine nord, oppure nella Striscia di Gaza, il paese non deve cedere “al rammollimento”, alla “corruzione”. Non può permetterselo. Negli ultimi mesi, accanto alle critiche sulla gestione della guerra estiva, la stampa nazionale e internazionale si è occupata di scandali giudiziari, finanziari e a sfondo sessuale della classe dirigente israeliana. “E’ una cosa molto pratica quella che ha fatto la commissione Winograd: ha detto a questa leadership ‘guarda, non sei adatta a guidare Israele, Israele è troppo difficile per te’”. Sostiene Nirenstein che la situazione interna attuale israeliana abbia origine a Oslo: “L’inizio di tutto quanto è l’idea che Oslo potesse funzionare. Ero anche favorevole al ritiro da Gaza. E’ stato un errore l’aver creduto che i palestinesi volessero fare uno stato e che la zona circostante (guidata ormai dall’Iran per quanto riguarda sia Hezbollah sia Hamas) si armasse tanto per fare e non per andare alla guerra”. La difficoltà davanti alla quale si è trovato Olmert era enorme e in molti, soprattutto da quando l’ultimo storico generale, Ariel Sharon, si trova immobile in un letto d’ospedale, hanno fatto notare che Israele non può permettersi di avere un intero gruppo dirigente senza esperienza militare. Circondato da paesi che non ne riconoscono l’esistenza e troppo vicino alle capitali di leader che minacciano di cancellarlo dalla cartina geografica, Israele affronta una sfida maggiore rispetto a ogni altro stato. “La sfida è cambiata da quando il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad è sulla piazza, la strategia di distruzione d’Israele è più sofisticata e anche al Qaida è scesa in campo a Gaza”, spiega Nirenstein che sostiene la necessità di una leadership con esperienza militare. Per questo spera in un ritorno di Barak, lo vorrebbe, come Olmert, alla Difesa. Anche Netanyahu potrebbe essere all’altezza del compito. “Queste primarie hanno in serbo soltanto Barak, personaggio con grande esperienza strategica, di leadership e anche di schiaffoni presi dalla storia: sa ormai chi sono i palestinesi, sa che il mondo arabo vuole distruggere Israele, sa che la sfida è gigantesca e il fatto che lui si stia ripresentando sulla scena è segno di grande coraggio”. Nirenstein ricorda Banjamin Netanyahu ed Ehud Barak, nel 1972, pronti a saltare sul volo 572 della Sabena, fermo sulla pista d’atterraggio di Tel Aviv. Era stato dirottato, con 107 passeggeri a bordo, dai terroristi del Settembre nero. Barak era il comandante del nucleo del Sayeret Matkal, le forze speciali dell’esercito israeliano, che portò a termine l’operazione di salvataggio. Tra i suoi uomini c’era anche Netanyahu. “Insieme salvarono quella gente e ora speriamo salvino Israele”.
Un'intervista allo storico Michael Oren:
Gerusalemme. Sulla guerra dei Sei giorni sono stati pubblicati numerosi libri e uno dei più importanti è stato scritto da Michael Oren, autore del bestseller “La guerra dei sei giorni”. Alla vigilia del quarantesimo anniversario della guerra, Oren ha parlato con il Foglio della sua duratura importanza. Questa guerra infatti, “non ha soltanto creato il medio oriente moderno come lo conosciamo oggi, ma ha anche profondamente cambiato la società e la politica arabe”. E spiega: “Ha piantato l’ultimo chiodo nella bara del nazionalismo arabo e dell’uomo che ne aveva incarnato l’idea, il presidente egiziano Gamal Abdul Nasser, aprendo la porta all’ascesa di un nuovo linguaggio nel radicalismo islamico”. Come sottolinea Oren, “il nazionalismo arabo laico, che aveva dominato la politica araba per i precedenti cinquant’anni, fu completamente screditato da questa guerra e non si è mai più ripreso. E gli arabi hanno guardato sempre più non ai modelli del nazionalismo laico occidentale, ma al loro stesso estremismo islamico per rispondere alla sfida del sionismo e dello stato ebraico”. Il rovescio della medaglia, però, fu che la guerra accese anche il nazionalismo palestinese, che prima del 1967 era stato praticamente inesistente. “I palestinesi si sono resi conto – continua Oren – che non potevano più rivolgersi ai leader arabi per la riconquista della Palestina e perciò hanno iniziato a pensarci da soli; ed è così che, poco dopo la guerra, l’Olp si è affermata come una delle forze principali nella politica araba. L’Olp era stata creata da Nasser nel 1954 per servire come organizzazione di facciata e non aveva alcun tipo di legittimità, nemmeno tra gli stessi palestinesi. Ma, poco dopo la fine della guerra, l’Olp, nella sua funzione di organizzazione ombrello, ha iniziato ad inglobare tutti i gruppi palestinesi, compresa al Fatah, che prima non ne faceva parte. E un anno più tardi, nel 1969, Yasser Arafat divenne il presidente dell’Olp”. Quanto alle conseguenze che la guerra ebbe per Israele, Oren dice: “In primo luogo, ha trasformato il paese perché ha riunito lo stato d’Israele con la terra d’Israele. Israele, prima del 1967, era formata soprattutto dalle zone costiere, che comprendevano le città di Ashqelon, Ashdod, Haifa e Tel Aviv. La riunificazione con Gerusalemme e con la patria ancestrale del popolo ebraico – con le città di Shiloh, Betlemme, Gerico ed Hebron – ha reso Israele uno stato più autenticamente ebraico. In secondo luogo, ha rafforzato le relazioni di Israele con la Diaspora e ha portato all’alleanza fra Stati Uniti e Israele”. Come sottolinea Oren, “la gente dimentica che Israele ha combattuto la guerra dei Sei giorni non con le armi degli americani, ma con quelle dei francesi. Washington aveva già una relazione amichevole con Israele ma non si trattava di un rapporto strategico. All’indomani del 5 giugno 1967, la leadership americana si rese immediatamente conto che Israele era una superpotenza regionale e un alleato estremamente utile nella Guerra fredda. Infine, sul piano internazionale, la guerra dei Sei giorni ha dato avvio al processo di pace. Prima del 1967 non c’era nessun processo di pace, ma soltanto la risoluzione 242 delle Nazioni Unite”. Sebbene la guerra dei Sei giorni abbia unito il popolo ebraico, la comunità internazionale, e in particolare la sinistra europea e americana, hanno iniziato a schierarsi contro la terra del latte e del miele. Oren spiega così questo cambiamento: “Prima di quella guerra, Israele era considerata come una sorta di Davide che combatteva contro il Golia arabo; ma, dopo la guerra, la schiacciante vittoria militare ha invertito i ruoli”. Quanto alla lezione che si può trarre, oggi, da quella guerra, “è che quando ci si trova in un contesto di conflitti, come accadde nel 1967, basta poco per scatenare una conflagrazione regionale. Per esempio, se domani Hezbollah lanciasse un razzo contro Israele, potrebbe benissimo scoppiare una guerra regionale capace di trasformare rapidamente tutto il medio oriente. Il secondo insegnamento, e probabilmente il più importante, è che lo stato ebraico non si lascerà mai più sterminare senza opporre resistenza e che, se si troverà da solo, farà tutto quanto necessario per garantire la sua sopravvivenza”. Anche se, come nel 1967 fecero francesi e americani, i suoi alleati dovessero abbandonarlo.
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