Leggiamo sempre con apprensione i pezzi di Sergio Luzzatto sul CORRIERE della SERA, chiedendoci dove mai andrà a parare. Nell' articolo di oggi, 26/05/2007, ha scritto una recensione ad un ottimo libro, la prima completa biografia di Zeev Jabotinsky, di uno storico italiano, Vincenzo Pinto, per questo la pubblichiamo, con l'invito ai nostri lettori di non lasciarsela sfuggire (Utet editore,€ 22,50). Per il resto è il solito Luzzatto, che si salva la coscienza verso il fondo, con le solite accuse a Z.J. di essere fascista/nazista e le solite solfe. Con alla fine la citazione di un altro libro,che racconta la storia degli ultimi cent'anni con estrema disinvoltura, leggasi raccontando un sacco di fandonie, come dire, scusatemi se ho scritto di Zeev Jabotinsky, mi riscatto con la citazione di un titolo di quelli che piacciono a me, cioè pregiudizialmente conto Israele.
Ecco il suo articolo, pregiudiziale anche nel titolo " Jabotinky, all'origine del sionismo nazionalista" ( urca, ma non era il sionismo a voler creare una Nazione ?) )
Sognava la fraternità tra nazioni, ma sostenne la teoria di una sostanziale impossibilità della convivenza con gli arabi in Palestina «N on abbiamo nulla di cui scusarci. Siamo un popolo come gli altri e non abbiamo alcuna voglia di essere migliori di ciò che siamo». Dixit Vladimir Zeev Jabotinsky, ebreo russo, alla vigilia della gigantesca conflagrazione, la Grande guerra, che avrebbe offerto agli israeliti della diaspora l'occasione storica per coronare il sogno millenario di un ritorno in Palestina. E aggiungeva, Jabotinsky: «Di piacere o meno alla gente ci è del tutto indifferente. Non abbiamo avuto, né abbiamo omicidi rituali. Ma, se volete credere che esista "questa setta", prego, accomodatevi pure! Che c'importa?».
Studente universitario, giornalista, romanziere, agitatore, più ancora che un ebreo russo Vladimir Jabotinsky era un apolide e un rivoluzionario di professione, quali poté produrne una generazione fattasi adulta nell'età della Seconda Internazionale e la cui maturità coincise con il trauma della prima guerra mondiale: con la fine del «mondo di ieri» per tranquilli ebrei della Mitteleuropa dello stampo di Stefan Zweig, con l'inizio del mondo di domani per sionisti impazienti come Jabotinsky. Questi, nato nel 1880 entro il vivacissimo melting pot borghese di Odessa, era destinato a sentirsi diverso sia dai russi di un impero zarista declinante, sia dagli ebrei di estrazione proletaria, ancorati alla lingua
yiddish e all'orizzonte ristretto dello
shtetl.
La vita di Jabotinsky, morto a New York nel 1940 dopo un'esistenza intera di viaggi e di lotte, di scritture e di sconfitte, è stata ora ricostruita da Vincenzo Pinto in una minuziosa biografia della Utet, Imparare a sparare.
Dove il titolo allude a una raccomandazione che Jabotinsky ebbe a trasmettere, già negli anni Venti, al futuro mentore dei neocon americani, Leo Strauss; ma dove il biografo si guarda dal ridurre il personaggio alle sole dimensioni di un teorico della violenza politica, insistendo piuttosto sul significato culturale più profondo del contributo di Jabotinsky alla causa del sionismo: il tentativo di fare dell'ebreo un uomo normale. Cioè non tanto, o non soltanto, un cittadino-modello, secondo l'ideale settecentesco dell'illuminismo ebraico, ma un essere umano come gli altri, capace di far bene come pure di far male. Non necessariamente una colomba, un agnello sacrificale, una vittima designata, ma all'occorrenza un falco: un uomo in grado di mostrare i muscoli, e magari di colpire per primo.
Dopo il 1914, quando le circostanze della Grande guerra esposero l'impero turco alla sua crisi ultima e definitiva, il sogno del movimento sionista di radunare gli israeliti della diaspora in uno Stato ebraico parve guadagnare in concretezza, nella misura in cui la dissoluzione dell'autorità ottomana in Medio Oriente schiudeva la possibilità di un insediamento degli ebrei in Palestina. Jabotinsky fu tra i primi a intuirlo: nel mondo nuovo del dopoguerra, i discendenti di David non avrebbero più dovuto affaticarsi intorno a prospettive cervellotiche come quella di uno Stato ebraico in Uganda. Ormai l'obiettivo poteva ben essere la Palestina; e l'interlocutore politico- diplomatico doveva essere la Gran Bretagna, il paese di lord Balfour e del riconoscimento ufficiale (nel 1917) della legittimità delle richieste sioniste. Così, Jabotinsky figurò tra gli artefici della Legione Ebraica, che nel 1918 si affiancò all'esercito britannico nella campagna di liberazione di Gerusalemme dal giogo ottomano.
Durante gli anni successivi, muovendosi infaticabilmente fra la Palestina del mandato britannico e i
Una cartolina
di SERGIO LUZZATTO
quattro angoli della diaspora ebraica, Berlino o Londra, Riga o Parigi, Roma o New York, Jabotinsky mise a punto la dottrina del cosiddetto «muro di ferro», che avrebbe fatto di lui il capostipite di una discendenza sionista di destra destinata a prolungarsi, attraverso uomini come Begin e Shamir, fino ad Ariel Sharon: che avrebbe fatto di lui, insomma, il padre putativo del Likud.
Di contro al sionismo laburista di un David Ben-Gurion e al sionismo liberale di un Chaim Weizmann, Jabotinsky sostenne la teoria di una sostanziale incompatibilità fra gli ebrei e gli arabi in terra palestinese. Le successive ondate migratorie di sionisti dovevano garantire loro un primato demografico sugli arabi, e l'addestramento sistematico dei pionieri all'uso delle armi doveva garantirne il primato militare. In tal modo, imponendo unilateralmente la loro presenza ai vicini, gli ebrei avrebbero posto le premesse per la nascita di un Grande Israele esteso su entrambe le sponde del Giordano.
Largamente minoritarie all'interno del movimento sionista, le teorizzazioni di Jabotinsky produssero comunque la nascita dapprima del Betar, poi dell'Irgun: l'uno, un gruppo giovanile ebraico ultranazionalista attivo soprattutto in Europa orientale, l'altra, una milizia clandestina di terroristi ebrei operativi nella Palestina degli anni Trenta. E quando certa stampa internazionale prese a parlare, con riferimento ai militanti del Betar e dell'Irgun, di «fascisti di Sion», i dinieghi di Jabotinsky non bastarono a tacitare le accuse di Weizmann e Ben-Gurion, che parlarono essi stessi di fascismo ebraico, e arrivarono a definire la versione di destra del sionismo come una forma larvata di «hitlerismo».
Ma non era per questo che Jabotinsky si sentiva nato: per inquadrare milizie parafasciste di camicie brune quant'era bruna la terra di Israele, o per organizzare sanguinosi attentati dinamitardi sui mercati arabi. Il suo era stato, e restava, l'ideale di un nazionalista sui generis; un nazionalista cosmopolita, che nell'Odessa di tardo Ottocento aveva sognato un sionismo della fraternità tra nazioni, immaginando il concerto delle nazioni come un'orchestra del genere umano. Nel 1938, Jabotinsky denunciò il «desiderio di armi e di sangue» che rischiava di corrompere il sionismo fino a farlo marcire. E la morte, due anni dopo, gli risparmiò l'esperienza di tutto il resto: la distruzione degli ebrei d'Europa, sulle ceneri dei quali sarebbe sorto lo Stato di Israele.
Chi voglia poi interrogarsi sulla continuità ideologica che tiene unite la dottrina di Jabotinsky sul «muro di ferro» e la decisione di Ariel Sharon di frapporre tra arabi ed ebrei la cosiddetta «barriera di sicurezza», un muro di cemento, di reti elettroniche, di filo spinato, lungo 750 chilometri , può leggere un altro libro, appena uscito da Einaudi: Il conflitto israelo-palestinese, dello storico americano James Gelvin. Altrettanto disincantato che utile, un compendio della moderna Guerra dei Cent'Anni.
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