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Il Foglio Rassegna Stampa
25.05.2007 Confederazione con la Giordania?
analisi su un'ipotesi per affrontare la crisi palestinese e del processo di pace

Testata: Il Foglio
Data: 25 maggio 2007
Pagina: 3
Autore: la redazione
Titolo: «In Giordania l’idea di una confederazione con l’Anp aleggia»
Dal FOGLIO del 25 maggio 2007:

Roma. Per Benjamin Netanyahu il piano saudita non ha futuro e il rilancio del processo di pace dovrà passare attraverso il coinvolgimento di Egitto e Giordania. In una franca intervista al Financial Times, il leader del Likud, in corsa alle prossime elezioni, invoca la partecipazione diretta di egiziani e giordani al negoziato di pace e rilancia l’idea di confederazione. “Una forma di federazione o confederazione tra la Giordania e i palestinesi aumenterebbe le prospettive di pace in medio oriente”, dice Netanyahu. “Confederazione” è una parola che ad Amman fa gelare il sangue. La temono tanto i transgiordani preoccupati dagli effetti di un’ennesima invasione palestinese, quanto i palestinesi del regno, sospettosi di una svendita della causa sull’altare dell’interesse nazionale giordano. Eppure dinnanzi al collasso dell’Autorità nazionale palestinese, con i tentacoli iraniani che da una parte si allungano sull’Iraq e dall’altra si raccordano al radicalismo di Hamas, l’ipotesi, per quanto indigesta, continua ad aleggiare. Re Abdallah II appoggia il piano saudita, ma ci crede poco. Fonti vicine alla corona spiegano al Foglio che ad Amman le speranze di dirimere il conflitto israelo-palestinese con la soluzione due popoli-due stati si assottigliano. “Non viviamo nel migliore dei mondi possibili. Siamo dinnanzi a un dilemma strategico: se faremo scelte difficili dovremo essere pronti a pagare le conseguenze, se nascondiamo la testa nella sabbia potrebbe anche essere peggio”. Per difendere il suo regno re Abdallah non può non prendere in considerazione un piano B. Amman non può non guardare alla Cisgiordania, perché teme il cortocircuito tra il crollo delle istituzioni palestinesi, il fondamentalismo di Hamas e l’afflusso di nuovi profughi alla porta del regno. Da un lato la Giordania è vulnerabile, dall’altro il suo futuro è condizionato dalle relazioni con i suoi vicini. Senza petrolio e senza accesso al mare, lo svidelluppo per il regno è condizionato dagli scambi con i suoi vicini. Chiudere i confini non servirebbe ad allontanare il problema. Il 60 per cento della popolazione giordana è palestinese, una buona parte intrattiene legami economici con la Cisgiordania. D’altro canto, guardando all’altra riva del Giordano, Amman è testimone di una violenza che percepisce come minaccia crescente. Se a ciò ci aggiunge il fatto che le relazioni tra re Abdallah e Hamas navigano in pessime acque – l’anno scorso le autorità giordane hanno accusato Hamas di pianificare attentati terroristici nel regno – non è del tutto incomprensibile supporre che, a dispetto delle incognite, alla Giordania, potrebbe infine non restare che tornare in Cisgiordania. L’ipotesi top secret è allo studio dei più fidati consiglieri del re. Secondo voci non confermate, l’ex primo ministro Abdul Salem Majali avrebbe già interpellato le autorità israeliane riguardo all’ipotesi di un assetto di sicurezza comune tra la Giordania e la Cisgiordania. Contestualmente Amman potrebbe elaborare assieme ai palestinesi le richieste da presentare nell’ultima fase negoziale e la Giordania prenderebbe formalmente parte al negoziato a fianco dei palestinesi. Le indiscrezioni hanno creato polemiche aspre, levate di scudi dalle potenti associazioni professionali palestinesi e dall’Islamic Action Front, il partito dei Fratelli musulmani in Giordania. Re Abdallah e il suo primo ministro, Marouf al Bakhit, hanno subito smentito. Questo scenario – hanno entrambi puntualizzato – potrà essere preso eventualmente in esame, solo dopo che i palestinesi avranno avuto il loro stato. Eppure l’idea resta nell’aria e alcune circostanze, come la presenza dei cisgiordani Bassem Awadallah e Farouk Kasrawi nella cerchia dei consiglieri del re o il programma federale di riforme e decentralizzazione, la tengono in vita. Alcuni commentatori giordani puntano anche il dito al beau geste dell’Arab Bank, banca con base in Giordania che vanta forti legami con l’Anp considerata la cassaforte della comunità palestinese nel regno. L’Arab Bank ha offerto più di tre milioni di azioni a un prezzo di favore ai membri delle forze armate giordane. Un escamotage – compiacere i grandi clan transgiordani, che controllano l’amministrazione e la sicurezza, e temono una perdita di status come conseguenza dell’integrazione. Ma al di là delle inquietudini che serpeggiano nella società giordana e alimentano teorie di cospirazione, è del tutto ragionevole che re Abdallah voglia essere coinvolto in quello che accade in Cisgiordania ed è ragionevole proprio per gli stessi motivi che persuasero suo padre a rinunciarvi. Re Hussein abbandonò le sue mire in Cisgiordania con la prima Intifada. Doveva evitare che la violenza contagiasse il regno. Allo stesso modo re Abdallah non può non essere in Cisgiordania, alleato di Israele, se vuole impedire che il fondamentalismo di Hamas fagociti il regno. Nella primavera del 2005 la Giordania si è presa l’incarico di addestrare alcune unità delle forze di sicurezza palestinesi per un possibile dispiegamento in Cisgiordania. Marouf al Bakhit, attuale primo ministro, all’epoca ambasciatore giordano in Israele commentò che era fondamentale per il suo governo “giocare un ruolo più attivo in Cisgiordania”. Una prospettiva sposata anche dal primo ministro Adnan Badran che al quotidiano palestinese al Quds dichiarò “la Giordania non può restare con le braccia incrociate a guardare quello che accade in Palestina, perché nel bene e nel male ciò che vi accade influenza il nostro futuro”. Nel marzo di quell’anno re Abdallah propose la normalizzazione delle relazioni con Israele come base di partenza di un successivo negoziato israelo-palestinese al summit della Lega araba. La proposta giordana fu bocciata, ma per Amman rappresentò la rottura del tradizionale paradigma arabo nei confronti del processo di pace. “Dinnanzi all’avvitamento della crisi interna alla società, prima ancora che alla politica palestinese – dice al Foglio una fonte giordana – re Abdallah è pronto a intraprendere strade coraggiose”.

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