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La Stampa Rassegna Stampa
25.05.2007 Iran: il regime sarà brutto, ma Bush è peggio
ambigui dissidenti condannano l'

Testata: La Stampa
Data: 25 maggio 2007
Pagina: 17
Autore: Claudio Gallo
Titolo: «“Non saranno le bombe di Bush a portare la libertà a Teheran”»
"La flotta più potente del mondo sta gonfiando i suoi muscoli a stelle e strisce nello stretto di Hormuz, ma la formicolante vita di Teheran procede ignara" è il folgorante inizio dell'articolo di Claudio Gallo pubblicato dalla STAMPA del 25 maggio 2007.
Il seguito mantiene le premesse: c'è l'America "imperialista" denunciata da un
  "attivista anti-capitalista" iraniano, presentato come un dissidente dal regime, c'è la convinzione che  Bush sia la prima e l'unica minaccia per la pace mondiale, c'è l'indifferenza totale per il pericolo che l'Iran rappresenta per gli altri paese (in primo luogo per Israele che vuole distruggere, ma non solo, e anche l'Europa è inclusa) e per il suo concreto sostegno al terrorismo.
Si capisce: esiste un diritto all'autodifesa, e non ci sarebbe nessun bisogno del consenso dei veri o presunti dissidenti iraniani per esercitarlo nei confronti del regime degli ayatollah.
Ma di questo, per Gallo, è meglio non scrivere.

Ecco il testo:


La flotta più potente del mondo sta gonfiando i suoi muscoli a stelle e strisce nello stretto di Hormuz, ma la formicolante vita di Teheran procede ignara: si cerca di metter insieme il pranzo con la cena facendo due o tre lavori mentre l’inflazione corrode i risparmi, come i 10 milioni di tubi di scappamento corrodono i polmoni. Sta pensando all’affitto, al mutuo da pagare, al costo dei figli quel tizio allampanato con la barba sfatta che cammina in fretta con una vecchia borsa di pelle in mano. Che in un prossimo futuro possano piovere bombe atomiche tattiche americane sui siti nucleari iraniani è un pensiero remoto, la maggioranza crede che alla fine si arriverà a un qualche tipo di dialogo. I giornali danno la notizia delle manovre con tutti i particolari ma senza enfasi. Non si nasconde la sincronia con la storia dell’uranio ma il dispaccio dell’UsNavy citato vuole rassicurare: «Le manovre non sono dirette contro alcun Paese». Il termometro della paura sale però quando si ascoltano gli intellettuali, specialmente i più critici: la democrazia, sì certo la vorrebbero ma non al seguito dei missili Cruise. Il governo invece lancia di tanto in tanto messaggi bellicosi per rispondere alle minacce americane, esercizio di retorica diretto più al pubblico internazionale che a quello interno.
Lo scorso venerdì a guidare la preghiera sulla spianata davanti al cancelli dell'università da cui prese avvio la Rivoluzione islamica nel 1979, c’era Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, il 72enne intramontabile Talleyrand iraniano, la cui popolarità è grande quasi quanto la sua fama di faccendiere: Akbar Shah lo chiamano i maligni. Tra salve di «Hashemi che Dio ti protegga» e altre più di maniera «Morte all’America», «Abbasso Israele», ha ricordato «la brillante storia di autodifesa del nostro Paese». Certo, si riferiva alla guerra con Saddam, ma chi voleva capire capiva. «Se gli americani mettono da parte l’arroganza, potremo costruire un Iraq più sicuro». Dunque trattare si può ma «il nucleare è diritto di ogni Stato e non accetteremo precondizioni». Poi la condanna dell’atomica, già espressa dalla Guida suprema l’ayatollah Khamenei: «Un danno per l’umanità». Sembrava che il disincantato Rafsanjani pensasse a come uscire dallo stallo salvando la faccia all’Iran.
Nella stessa città, ma su un altro pianeta, in un appartamento affollato di sindacalisti semiclandestini, il pessimismo del 50enne Moshen Hakimi, membro dell’associazione degli scrittori, «attivista anti-capitalista», buon conoscitore delle prigioni, è profondo. «Qui c’è gente che lavora da due anni senza paga, fabbriche che chiudono, contratti che durano 15 giorni. Come si fa a vivere così? Sì, Bush è capace di attaccare ma sarebbe solo un gesto di aggressione imperialista. Non ci aspettiamo niente di buono».
Su un pianeta ancora diverso, nel centro della capitale, incontriamo Emadeddin Baghi, 45 anni, campione della lotta contro la pena di morte (se gli iraniani avessero potuto scegliere il Nobel l’avrebbero dato a lui e non alla Ebadi). Alto, ieratico, barba curata a tratti bianca, completo grigio chiaro, colletto all’occidentale, presiede l’associazione per i diritti dei detenuti («tutti, non solo quelli politici»). Un uomo corpulento con la bocca piegata da una cicatrice gli parla di suo fratello scomparso in prigione. Appena libero, si getta nella discussione: «Solo Dio sa se gli americani ci attaccheranno. Ahmadinejad e Bush sono due lame di una forbice che distrugge la libertà. Il Congresso Usa ha stanziato un centinaio di milioni di dollari per la democrazia in Iran, grazie tante ma non li vogliamo. Adesso il regime ha un altro pretesto per arrestare gli oppositori: per loro siamo tutti sul libro paga della Cia. Ho proposto invano che gli americani scrivessero chiaramente a chi vanno i soldi. Dobbiamo avere la forza di opporci all’uso strumentale dei diritti umani».
A Nord di Teheran, un signore distinto con i baffi, blazer blu e cravatta scura di Valentino apre la porta di un’elegante casa a due piani. E’ il professor Davoud Hermidas Bavand, 66 anni, esperto di geopolitica, già consulente del ministero degli Esteri dello Shah e dell’Onu, oggi pungente critico liberale del regime. Anche lui crede che il cambiamento debba venire dall’interno e non dall’esterno. «Quando il Congresso Usa dice che la decisione di attaccare l’Iran deve passare attraverso il suo voto riconosce che è già nell’agenda. Da De Gaulle in Algeria a Nixon in Vietnam abbiamo esempi di come i grandi Paesi spesso alzino il livello dello scontro per arrivare in posizione vantaggiosa al dialogo. Ma talvolta ci si trova in un vicolo cieco e allora l’unica via d’uscita dalla crisi è aprire una crisi più ampia». Insomma un altro piano B di Bush, che Dio ce la mandi buona.

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