Il contributo di Janiki Cingoli alla disinformazione contro Israele le attribuisce la colpa dei razzi kassam, e persino della faida tra Hamas e Fatah
Testata: Europa Data: 23 maggio 2007 Pagina: 1 Autore: Janiki Cingoli Titolo: «Le occasioni perdute di Israele»
Israele è responsabile di aver indotto Hamas a rompere una tregua che in realtà non c'è mai stata: i lanci di razzi kassam e gli attentati suicidi, questi ultimi compiuti da membri della Jihad islamica, ma apertamente sostenuti dal governo di Hamas, non sono mai cessati, Ghilad Shalit non è mai stato liberato. Israele è responsabile anche degli scontri tra le fazioni palestinesi che si sono riaccesi a causa della "reiterata volontà statunitense e anche israeliana di rafforzare militarmente ed economicamente solo la componente legata ad Abu Mazen". Una frase che dell'incredibile. Secondo Cingoli per evitare le guerre civili si deve avere cura di "rafforzare" militarmente tutte le fazioni. Israele poi, è tenuta a "rafforzare" soprattutto chi dichiara di volerla distruggere e la aggredisce. Non finisce qui, secondo Cingoli:" La stessa questione del riconoscimento di Israele, in sé, è poco più di una disputa ideologica: normalmente, tra stati in conflitto per il territorio, questo avviene alla fine e non all’inizio del processo negoziale, una volta che siano definiti i confini rispettivi". Un'affermazione semplicemente falsa, perché Israele è l'unico Stato al mondo di cui si mette in questione la stessa esistenza. E perché tutti i negoziati presuppongono e hanno sempre presupposto il riconoscimento della legittimità dei negoziatori. Per Cingoli, comunque, attraverso un complesso sistema di "scatole cinesi" di accordi e documenti che rimandano ad altri accordi, l'accordo della Mecca avrebbe in sostanza accettatoo alle condizioni poste dal Quartetto al governo palestinese (riconoscimento di Israele , fine della violenza, rispetto degli accordi pregressi). Ma è semmai vero il contrario: attraverso un complesso gioco di scatole cinesi, l'accordo della Mecca rimanda ad accordi che rimandano ad altri accordi, nessuno dei quali accetta le condizioni del Quartetto. Anche sul terrorismo, Cingoli scrive parole che hanno dell'incredibile. Apprendiamo così che la "rinuncia alla violenza (...) deve essere assoluta riguardo al terrorismo contro i civili, ma non si può negare il diritto alla resistenza contro l’occupazione". Cingoli dunque giustifica il terrorismo contro i militari israeliani in nome della "resistenza" a un'occupazione che sarebbe già terminata da tempo senza il terrorismo. Ci sarebbe poi da chiedersi se i coloni israeliani siano o meno, secondo Cingoli, civili. Forse la sua giustificazione del terrorismo si estende anche a loro. Anche su questo punto, comunque, non ci si limita alle opinioni aberranti. C'è anche la disinformazione. Leggiamo infatti subito dopo: "per cui quella che va ricercata è una tregua di lunga durata (cui Hamas si dichiara disposto), che apra la strada al negoziato." Cingoli vuol dunque farci credere che Hamas combatta l'"occupazione" di Cisgiordania e Gaza, ma sia disponibile ad una tregua per risolvere il contenzioso su questi territori. In realtà, per il gruppo islamista la tregua di lungo periodo non è la premessa, ma il punto d'arrivo del negoziato su Cisgiordania e Gaza. Punto d'arrivo temporaneo, perché, scaduta la tregua, vi sarebbe di nuovo la guerra per arrivare all'obiettivo finale: distruggere Israele.
Ecco l'articolo:
È evidente, come ha ribadito il ministro degli esteri della Ue, Javier Solana, che non si può accettare la ripresa massiccia dei lanci di missili Kassam da Gaza verso Israele, in particolare verso la città di Sderot, dove ieri c’è stata una vittima. È tuttavia evidente che la tregua appena saltata, ma che per circa sei mesi era stata sostanzialmente rispettata da Hamas, non poteva durare mentre Israele continuava a colpire le strutture militari dell’organizzazione in Cisgiordania. L’altro elemento chiave della situazione è il riesplodere del conflitto tra le diverse fazioni palestines. Un conflitto che investe in particolare tra Fatah e Hamas, che nell’ultimo mese hanno fatto decine di morti a Gaza. Un conflitto che pareva sopito dopo l’accordo della Mecca dello scorso febbraio. Molto probabilmente, alla base vi è, da un lato, il timore di Hamas per la reiterata volontà statunitense e anche israeliana di rafforzare militarmente ed economicamente solo la componente legata ad Abu Mazen, alterando così l’equilibrio alla base di quell’accordo. A ciò si aggiunge una rinnovata aggressività degli elementi più intransigenti di Fatah, legati all’uomo forte di Gaza, Muhammad Yusuf Dahlan, che sentono probabilmente venuto il momento dello show down con i rivali di sempre. Cui fa da pendant l’aggressività dei gruppi militari islamici, che sempre più spesso sfuggono al controllo del premier Ismail Haniyeh e dello stesso leader del gruppo, Khaled Meshall. La reazione della leadership israeliana, peraltro attanagliata da una gravissima crisi di credibilità, appare sostanzialmente una risposta a un’opinione sempre più inquieta, di fronte al grandinare dei razzi. La stessa annunciata escalation contro gli esponenti politici di Hamas, denunciati come mandanti del terrore, non pare in grado di risolvere il problema della sicurezza al confine con Gaza, e potrebbe al contrario aprire la strada a una nuova ondata di attacchi suicidi, anche se l’infrastruttura terroristica è stata seriamente intaccata dalle incessanti incursioni della sicurezza israeliana. La realtà è che la finestra di opportunità, che era sembrata aprirsi dopo l’accordo della Mecca, e il successivo rilancio del Piano arabo, effettuato nel summit di Riyadh, rischia ora di chiudersi di nuovo. Hamas aveva accettato quell’accordo con Fatah nella speranza che ciò permettesse di porre fine all’isolamento internazionale e al conseguente boicottaggio economico. E in effetti qualche risultato si era ottenuto, con le aperture degli Usa e della Ue al ministro delle finanze Salam Fahyyad. Ma si trattava di aperture del tutto insufficienti, soprattutto per Hamas, che pure riteneva di aver fatto le aperture più consistenti. Le pallide acrobazie verbali della Ue, con la sua richiesta che il governo palestinese “rifletta” invece che “accolga” le tre condizioni poste dal Quartetto, e cioè il riconoscimento di Israele, la rinuncia alla violenza e l’accettazione dei trattati pregressi, devono essere sembrate ai leader della formazione islamica poco più che aria fritta. Secondo loro, con gli accordi della Mecca quelledizioni erano state sostanzialmente accolte. In realtà, vi è una difficoltà delle diplomazie occidentali a cogliere tutta la portata di quegli accordi: essi hanno la struttura di una scatola cinese, sono accordi che contengono o rinviano ad altri accordi: il documento dei prigionieri, il Piano arabo, gli accordi firmati dall’Olp, inclusi quelli di Oslo, di cui ci s’impegna al “rispetto” (non casualmente, lo stesso termine usato da Sharon quando formò il suo governo). La stessa questione del riconoscimento di Israele, in sé, è poco più di una disputa ideologica: normalmente, tra stati in conflitto per il territorio, questo avviene alla fine e non all’inizio del processo negoziale, una volta che siano definiti i confini rispettivi. Quanto alla rinuncia alla violenza, questa deve essere assoluta riguardo al terrorismo contro i civili, ma non si può negare il diritto alla resistenza contro l’occupazione, per cui quella che va ricercata è una tregua di lunga durata (cui Hamas si dichiara disposto), che apra la strada al negoziato. In conclusione, l’equilibrio su cui si basa l’accordo della Mecca è un equilibrio fragile: se esso fosse stato recepito con maggiore generosità dalla comunità internazionale, e in particolare dall’Europa, questo avrebbe rafforzato le componenti più realistiche sia di Al Fatah che di Hamas. Di fronte alla sordità o almeno alla insufficiente attenzione internazionale, la parola sta tornando ai falchi palestinesi, e a quelli israeliani.
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