martedi` 26 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
23.05.2007 Occorre ritornare al progetto di una federazione giordano-palestinese
l'analisi di Carlo Panella

Testata: Il Foglio
Data: 23 maggio 2007
Pagina: 2
Autore: Carlo Panella
Titolo: «Una road map per una federazione tra Giordania e Anp»

Dal FOGLIO del 23 maggio 2007:

Perché Hamas e al Fatah si sparano? Perché gruppi palestinesi fuori controllo sparano in Libano? La vulgata corrente nelle cancellerie europee e nei media vuole che la colpa sia di Israele, ma è un trucco che non regge. Anche se crepassero di fame – ma vediamo robusti e scattanti miliziani all’opera – anche se fossero esasperati dall’occupazione israeliana – ma hanno iniziato a spararsi soltanto quando Ariel Sharon si è ritirato da Gaza – anche se fossero abbruttiti da quarant’anni di occupazione – ma nel 1939 i loro nonni si spararono esattamente come fanno loro oggi – gli uomini di Hamas e quelli di al Fatah – anche odiandosi – avrebbero tutto l’interesse ad allearsi per ottenere che Israele si ritiri dalla Cisgiordania. In realtà, però, questo è soltanto l’obiettivo di al Fatah, perché Hamas non vuole questo: vuole la distruzione di Israele ed è soltanto disposta a segnare una tregua, anche ventennale, pur di ottenerla. Per questo spara i suoi 4.500 razzi su Sderot, terribile memento mori. Hamas e Fatah dunque non hanno obbiettivi strategici comuni, né li avranno mai, ma anche questo non basta a giustificare questi loro 210 morti in cinque mesi, cinquanta in cinque giorni, tutti ufficiali, miliziani, uomini preziosi. Tanto odio deve avere anche un motivo scatenante, ma è un motivo sepolto sotto una coltre di ipocrisia dall’Europa politica e mediatica. E’ un motivo ignorato perché è infame, perché solleva Israele da ogni colpa, perché obbliga tutti, il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, e l’Alto rappresentante per la politica estera e di difesa europea, Javier Solana, solo per fare due esempi, a rivedere i propri giudizi sulla questione palestinese. Hasnan Ashrawi, la mediatrice palestinese di Oslo, è persona retta che dice verità scomode e da anni denuncia quel motivo con parole nette: “La mafia di al Fatah”. Non si parla qui di “terzo livello” o di idiozie complottiste, ma del terribile lascito che Yasser Arafat ha dato al suo popolo, usando le decine di miliardi di dollari ricevuti dalla comunità internazionale dopo il 1993, non per finanziare lo sviluppo, ma per arricchire i suoi luogotenenti dell’Olp – i “tunisini” – e per impiantare un’economia malavitosa basata su racket, estorsioni, rapimenti, contrabbando e simili. Un’economia di mafia che è esplosa con il 2001, quando l’Intifada delle stragi voluta da Arafat ha distrutto tutto lo sviluppo economico indotto dagli israeliani – la disoccupazione a Gaza nel 2000 era soltanto del 10 per cento, oggi è al 30 per cento – e ha fatto dei tunnel e del contrabbando l’attività più lucrosa della Striscia. L’immonda vicenda della disputa sulla buonuscita di Suha Arafat – mediatore l’allora presidente francese Jacques Chirac – a Parigi nella stanza a fianco dell’agonizzante raìs ne fu il suggello. Il rapimento del giornalista della Bbc ad opera di un potente clan di Gaza sostenitore di Hamas ne è l’ultimo esempio. Tutti i clan di Gaza si sono modellati sul modello sociale malavitoso con cui Arafat ha costruito la sua Palestina, anche quelli di Hamas, i cui militanti sono sicuramente onesti, ma i cui seguaci si adeguano a un’economia impastata di jihad e rapine. Oggi la violenza e l’odio che vediamo riversati nelle strade di Gaza sono è il prodotto di una società palestinese cresciuta storta dal 1993 in poi, avvelenata da una miscela ammorbante in cui l’ideologia jihadista si impasta con le strategie destabilizzanti di Siria e Iran (vedi i recenti fatti in Libano) e odi etnici, tribali e di clan, esasperati dalla lotta per il controllo di questo o di quel quartiere, tunnel, racket, mercato. Anche chi appoggia il rais Abu Mazen non può nascondersi che la battaglia di Gaza si svolge attorno al suo fiduciario nella Striscia, quel Mohammed Dahlan che ha accumulato una fortuna personale immensa con traffici irreferibili. Soffermarsi sulla vischiosa composizione sociale dei gruppi dirigenti e della società di Gaza, è indispensabile allora per definire una proposta nuova che non ripeta inutili giaculatorie sulla road map. E’ indispensabile allora partire dalla proposta di nation building, elaborata dall’egiziano Anwar al Sadat e dall’israeliano Menahem Begin, quando siglarono nel 1979 gli accordi di Camp David, concordando non soltanto sul ritiro dal Sinai, ma anche su un percorso di graduale autonomia della Cisgiordania e di Gaza. Una strategia che puntava a formare per via elettorale gruppi dirigenti palestinesi che dessero vita a un’“autorità autogovernate”, mentre Israele si impegnava a lasciare i Territori nell’arco di cinque anni. Quel piano fu rifiutato e boicottato da Arafat, dal “Fronte del Rifiuto” – Saddam Hussein in testa – e dall’Urss, per una ragione oggi chiara nelle sue conseguenze nefaste: rifiutava di riconoscere come gruppo dirigente palestinese, sic et sempliciter, quello militare e terrorista dell’Olp, e puntava a definirne uno sorto dal basso, dalla “società civile”, si potrebbe dire, nell’evidente convinzione che comunque l’influenza dell’Olp avrebbe prodotto una classe dirigente fedele ad Arafat, ma selezionata dal voto popolare e di estrazione amministrativo-politica, saldamente collegata alla Giordania che allora ancora esercitava la sovranità sulla Cisgiordania. Fu in quell’occasione che l’Europa abdicò al suo ruolo. Richiesti dagli Stati Uniti di esercitare una forte pressione sugli arabi (Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani andarono da Saddam, che li intrattenne esaltando Hitler e la hitlerjugend), i governi europei si limitarono a registrare il loro diniego alla pace egizio-palestinese e lasciarono che quel percorso si impantanasse, timorosi di dispiacere all’Olp e incapaci di comprendere che quella prima road map la obbligava a rimodularsi sul territorio e a legittimarsi per via democratica e non terrorista. Nel vertice di Venezia del 1980 l’Europa scelse poi l’Olp come unico interlocutore, si mise con Arafat e contro l’accordo Sadat-Begin (che si limitò alla restituzione del Sinai), ebbe molto petrolio e aprì un baratro con Israele. L’assassinio di Sadat a opera degli antesignani di al Qaida nel 1981 fece fallire definitivamente il progetto. Nel 1988 re Hussein di Giordania infine, in piena Intifada delle pietre, prese atto del fallimento di Camp David, in cui aveva sperato, perché sanciva un cammino che si sarebbe concluso con una federazione giordano-palestinese o simili, e rinunciò alla sovranità sulla Cisgiordania. Arafat dilagò e portò il popolo palestinese al disastro. Ma è possibile oggi riproporre quel percorso, tentare una sorta di sliding door? Forse. Innanzitutto è necessario un gesto, come quello straordinario, biblico, di Sadat che andò a rendere omaggio alla Knesset, il Parlamento israeliano, nel 1977. Lo fece non a conclusione della trattativa, ma prima, per aprirla e fu quel gesto a imporre la pace. Ma quale gesto può fare oggi Abu Mazen? Può “sparigliare”, può andare ad Amman e chiedere a re Abdullah II di avviare un progetto federale, può proporre una soluzione statuale Giordania-Anp. Può chiedere alla comunità internazionale di finanziare e proteggere militarmente una macroregione giordano-palestinese che re Abdullah ha definito da anni (chiedendo anche alle holding israeliane di investirvi, per collegarla finanziariamente a Israele), che può avere una “massa critica” politica e un peso economico tali da isolare e guarire la metastasi malavitosa e jihadista di Gaza. Può riparare all’errore compiuto nel 1988 quando il destino della Palestina fu reciso da quello della Giordania e riportare con sano gradualismo la costruzione dello stato palestinese nell’alveo protettivo di una nazione araba retta da un sovrano illuminato. Oggi, se fosse supportata con forza, con capitali, con volontà, dall’occidente, se avesse garanzie internazionali, anche militari, che non si ripeta il tentativo golpista palestinese del 1970, la Giordania potrebbe farsi carico del futuro della Palestina, potrebbe offrire ai palestinesi di associarsi con uno stato che esiste già, con una classe dirigente relativamente formata, in buona parte palestinese, peraltro, potrebbe offrire una spalla a quel poco di classe dirigente presentabile che si è coagulata attorno ad Abu Mazen: le tante Hasnan Ashrawi, Sayyid Fayed, Hanna Siniora e Mustafa Barghouti. Le formule sono tante, il federalismo è terreno fertile. L’importante è che un gesto imponga una svolta.

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT