Così come in passato la Chiesa (e la società intorno ad essa) accettava gli ebrei soltanto se si convertivano al Cristianesimo, perseguitando chi si rifiutava di abiurare e così come anche durante il periodo illuministico e della Rivoluzione francese si concedevano agli ebrei tutti i diritti in quanto individui, ma nessun diritto in quanto collettività, chiedendo loro, quindi, di assimilarsi e abbandonare la propria identità, così ora la nuova forma di antisemitismo chiede agli ebrei di dissociarsi da Israele e dalle sue politiche, di spezzare quindi, quel forte legame culturale, sentimentale, storico e, in parte anche familiare, che lega la diaspora a quello Stato.
E naturalmente c’è chi preferisce abbandonare questa sua identità nella speranza di poter essere accettato nella società che glielo chiede. Un antisemitismo, quindi, che non è lontanamente paragonabile a quello di stampo razzista degli anni ’30, secondo il quale gli ebrei erano geneticamente diversi, dunque “irrecuperabili”, per cui l’unica “soluzione” era sterminarli al completo, ma estremamente simile a quello di stampo cristiano prima e illuministico poi.
Questa è la tesi centrale di “Autodafé”, di Emanuele Ottolenghi, edito dalla Lindau. Un libro ricco di esempi e una miniera di documenti preziosi per chi si occupa soprattutto di Medio Oriente, ma anche per chi è interessato all’antisemitismo, all’informazione, all’integrazione delle varie culture e alla sociologia.
Esempi che attestano sia la richiesta di conversione di cui sopra (da Barbara Spinelli a Sergio Romano), sia la risposta positiva di alcuni ebrei divenuti famosi in tutto il mondo proprio grazie alla loro posizione assunta (da Chomsky a Pappe, passando per Vanunu, Harold Pinter, Uri Avnery e tanti altri ancora), ma che attestano anche il doppiopesismo usato da media e dai politici verso il conflitto arabo-israeliano con particolare riguardo ai cinque anni dell’ultima “intifada”.
Per dimostrare quest’ultimo atteggiamento Ottolenghi esamina accuratamente le reazioni nel mondo di tre episodi in particolare: la passeggiata di Ariel Sharon sul Monte del Tempio (chiamato dai musulmani Spianata delle Moschee); l’operazione “Scudo Difensivo” e l’incursione israeliana a Jenin; e l’uccisione mirata di Ahmed Yassin.
Reazioni che si sono basate appunto, sulla vecchia iconografia cristiana che descriveva gli ebrei come deicidi, spietatamente assetati di sangue, complottisti e avidi di potere e quindi destabilizzatori della pace che hanno portato alcuni ad avanzare richieste che non sono mai state poste a nessun altro gruppo al mondo.
Così, Ottolenghi ricorda i vari appelli di professori universitari o di intellettuali destinati a israeliani o agli ebrei della diaspora affinché si dissociassero dalla politica di Gerusalemme. Un’assurdità se si pensa che non si è mai posto condizioni di accettabilità analoghe a cittadini di altri Paesi i cui governi si sono macchiati di efferati crimini: dal Sudan alla Cina, dall’Afghanistan dei talebani alla teocrazia iraniana.
Un odio condizionato, quindi, che impone dei parametri perché esso lasci il posto all’accettazione o alla tolleranza e che presenta le sofferenze e le persecuzioni subite dagli ebrei come una loro responsabilità per non aver risposto positivamente alle richieste imposte.
Altro elemento interessante è l’atteggiamento europeo verso i nazionalismi e il cosmopolitismo: mentre in passato i primi erano esaltati e il secondo era visto come uno dei difetti principali degli ebrei (Stalin li accusava di essere “cosmopoliti senza radici”), ora Israele viene visto negativamente ed erroneamente come l’ultimo esempio di nazionalismo da abbattere. Viene così ignorato che, non solo il sionismo è un movimento di riscatto per un popolo oppresso come lo può essere stato il Risorgimento italiano, ma anche che nel mondo arabo e soprattutto in quello palestinese è presente quella forma di estremo nazionalismo che porta ad escludere qualunque minoranza religiosa o culturale.
Una forma di antisemitismo, questa moderna, quindi, che non è pericolosa come quella degli anni ’30, ma è ben più viscida e subdola perché spesso vorrebbe essere fatta passare come legittima critica ad Israele e non come negazione dei diritti inalienabili di un popolo.