Terza e ultima puntata della sonata per violini e "trombone" di Sergio Romano dedicata alla Siria sul CORRIERE della SERA di oggi, 19/05/2007, a pag.19. IC ha pubblicato le prime due (digitare il nome di Sergio Romano nella ricerca in Home Page). Non facciamo commenti, per " goderne" l'ascolto è sufficiente leggerlo.
Gli americani accusano la Siria di non avere impedito alle reclute di Al Qaeda e del terrorismo di entrare in Iraq attraverso la frontiera siriana. È possibile che le guardie di frontiera, in molte circostanze, abbiano chiuso un occhio e si siano voltate dall'altra parte. Ma se gli americani e gli iracheni non riescono a controllare i 605 km che separano i due Paesi, è difficile pretendere che i siriani possano fare altrettanto, ed è ancora più difficile calcolare il numero delle reclute che hanno attraversato questa frontiera per andare a ingrossare le file della guerriglia antiamericana o delle milizie anti-sciite. È più facile invece calcolare il numero dei profughi che hanno abbandonato l'Iraq per trovare rifugio in Siria: un milione e 200 mila secondo alcuni, addirittura un milione e mezzo secondo altri.
Fra i primi ad accorgersi dell'importanza di questo fenomeno vi fu probabilmente 30 giorni, il mensile di Comunione e Liberazione diretto da Giulio Andreotti, per cui Gianni Valente, in febbraio, scrisse alcuni articoli da Damasco. Nello stesso mese l'Alto Commissario per i rifugiati, Antonio Guterres, corse a Damasco per due ragioni: voleva domandare ai siriani di non chiudere le loro frontiere e desiderava attrarre l'attenzione del mondo su quello che sarebbe oggi, come sostiene il rappresentante dell'Alto Commissariato in Siria, «il più massiccio spostamento di popolazione in Medio Oriente dall'esodo dei palestinesi che fece seguito alla creazione dello Stato d'Israele nel 1948». Una conferenza internazionale si è tenuta a Ginevra nella seconda metà di aprile per affrontare gli aspetti umanitari del problema, ma i risultati concreti dell'incontro sarebbero per ora modesti.
I rifugiati iracheni in Siria appartengono a un fenomeno più vasto che coinvolge, secondo l'Alto Commissariato, quattro milioni di persone. Quelli che hanno scelto di espatriare verso la Giordania sarebbero circa 800.000 mentre quelli che hanno abbandonato il luogo in cui abitavano per trovare rifugio in un'altra regione dell'Iraq, sarebbero almeno due milioni.
Ma questa non è una fuga in massa come quella dei tedeschi dalla Germania orientale di fronte alle colonne motorizzate dell'Armata Rossa o dei kosovari assiepati sulla frontiera albanese all'inizio della guerra del marzo 1999. È un continuo sgocciolio di automobili sovraccariche di gente e bagagli che fuggono da una città irachena, sfidano le bombe e gli agguati, attraversano il deserto, puntano verso la frontiera, ottengono un permesso di soggiorno dalle guardie di confine del Paese vicino e scaricano le loro cose sul marciapiedi di una via di Bagdad o Amman. Saranno poveri di lì a qualche mese, quando avranno dato fondo ai loro risparmi. Ma non lo erano al momento della loro partenza. Erano commercianti, artigiani, professionisti, funzionari pubblici. Avevano un negozio, una bottega, uno studio professionale.
A Gerratana, il quartiere di Damasco dove molti di essi hanno trovato un alloggio, non è difficile individuarli. I siriani li riconoscono dall'accento e dagli abiti generalmente occidentali della maggior parte delle donne. I cristiani portano spesso sul petto una collana da cui pende un crocifisso. Quando ci fermiamo in uno slargo accanto a due negozi di alimentari e chiediamo informazioni sull'ufficio della Caritas, tre persone si fanno avanti. È la famiglia Sabah. La moglie è sui quarantacinque anni, ha i capelli ossigenati, porta calzoni piuttosto attillati. Il marito, un po' più vecchio, è alto e robusto, con un grande viso e la pelle leggermente più scura. A Bagdad aveva un negozio dove vendeva parti di ricambio per automobili. La seconda donna è più anziana con i capelli corti e la carnagione molto chiara, forse la madre di lei. Sono partiti da Bagdad poco meno di un anno fa, dopo il rapimento del figlio. Hanno pagato il riscatto, hanno caricato sull'automobile tutto quello che potevano portare con sé e se ne sono andati. Chiedo se hanno intenzione di tornare in patria non appena la situazione sarà divenuta normale. Rispondono di no, senza esitare, Probabilmente non credono che la situazione irachena, per una famiglia cristiana, possa ridiventare normale.
Vorrei incontrare un'altra famiglia e ilmarito mi accompagna in una zona del quartiere dove stanno sorgendo, su un terreno in abbandono, case di quattro o cinque piani costruite con mattoni bianchi. Sono ancora rustici, privi di finiture, con una pompa dell'acqua «a giorno» nell'androne e scale prive di balaustre e corrimano. Ma sono gia abitati. Qui gli affitti sono generalmente intorno alle 10.000 lire siriane (circa 150 euro), ma in questi ultimi mesi, grazie alla domanda irachena, sono raddoppiati. La donna che scende a incontrarci dal quarto piano si chiama Fadia Hekmat Korkiz ed era insegnante di inglese in una scuola media di Bagdad quando alcuni uomini in uniforme (non ha capito se fossero poliziotti, militari o miliziani) sono entrati nelle aule e hanno chiesto a ogni persona presente di dichiarare la propria appartenenza religiosa. A lei, allorché hanno saputo che era cristiana, hanno ingiunto di convertirsi. Ha risposto che non poteva rinnegare la propria fede e la hanno detto minacciosamente di pensarci bene perché sarebbero tornati il giorno dopo. La tecnica è sempre la stessa e serve a «ripulire» dagli «altri» un villaggio o il quartiere di una città.
Gli sciiti cacciano i sunniti, i sunniti cacciano gli sciiti e ambedue cacciano i cristiani che sarebbero oggi, secondo l'Alto Commissariato dei rifugiati, una parte importante, forse un terzo degli esuli iracheni nella regione.
Poche ore dopo la visita dei militari, Fadia e i suoi familiari sono saliti su un'automobile, diretti alla frontiera.
Mentre la donna racconta, un ragazzo la ascolta attentamente senza parlare. È il figlio maggiore, tredici anni, magro, pallido, occhi scuri, una leggera peluria sul labbro superiore. È stato malato, non può andare a scuola. Il fratello più piccolo lavora già in un ristorante. Chiedo se hanno intenzione di restare in Siria e la madre mi risponde che vorrebbero andare in Canada dove vive sua sorella. Chiedo se hanno notizie del vescovo caldeo di Bagdad. Mi risponde che va avanti e indietro fra Bagdad e Roma e che cambia spesso la sua residenza.
Quando parlo di questa «invasione» irachena ai siriani che ho incontrato in questi giorni, mi rispondono con una punta d'orgoglio e qualche preoccupazione che il loro Paese ha accolto e assorbito, d'un colpo solo, l'equivalente di un emirato del Golfo. L'arrivo dei profughi ha prodotto qualche effetto negativo. Ha fatto lievitare il costo degli affitti e il prezzo dei generi di prima necessità. Ha creato fenomeni (prostituzione, piccola criminalità, rapimenti di persona) a cui la società siriana non era abituata. Ha suscitato malumori e risentimenti nell'opinione pubblica. Ma sembra prevalere per il momento la convinzione che questo gesto di ospitalità abbia giovato all'immagine della Siria nel mondo arabo e abbia contribuito a renderla molto meno «canaglia» di quanto non sia agli occhi degli americani. Non è tutto. L'esodo ha avuto l'effetto di rendere la Siria molto più multireligiosa e l'Iraq molto più integralmente musulmano di quanto fossero alla vigilia del conflitto. In Iraq, alla vigilia della guerra, i cristiani (soprattutto caldei, ma anche assiri, ortodossi e armeni) rappresentavano il 3% della popolazione. Alla fine di questo interminabile «periodo dei torbidi» buona parte della comunità si sarà dispersa nella regione e nel mondo. E le storie del Medio Oriente, fra un secolo, parleranno di un presidente evangelico, abituato a iniziare le sue riunioni mattutine con una preghiera al Signore, che fu responsabile della decristianizzazione dell'Iraq.
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