Il terrorismo non è un poi un problema così grave, e chi crede il contrario è paranoico le sconcertanti dichiarazioni dello scrittore Mohsin Hamid
Testata: La Repubblica Data: 16 maggio 2007 Pagina: 49 Autore: Susanna Nirenstein Titolo: «L´ISLAMISTA DIVISO A METÀ»
Dalla REPUBBLICA del 16 maggio 2007:
Il secondo romanzo di Mohsin Hamid, dopo il suo bellissimo Nero Pakistan (Piemme) di 6 anni fa, gira intorno a un agghiacciante sorriso. È quello che illumina Changez, il protagonista, davanti al crollo delle Torri Gemelle dell´11 settembre 2001, ed è il cuore de Il fondamentalista riluttante (Einaudi, pagg.134, euro 14), il punto di svolta del lungo racconto che Changez, pakistano come il suo autore, offre a un americano dall´aria solida e i capelli a spazzola genere agente della Cia mentre siedono a un bar di Lahore. L´uomo occidentale non parla mai nel romanzo, ascolta Changez che disserta per ore: descrive la sua famiglia un tempo ricca ma ora non più, i suoi fortunati studi a Princeton, in America, le vacanze in Grecia con i compagni di università, il suo invaghirsi di Erica, una bella e sensibile esponente dell´upper class newyorkese, i suoi successi come analista finanziario, il general manager che l´apprezza e lo promuove, la sensazione di non essere mai discriminato. Certo, non son tutte rose e fiori, ma la vita gli sorride, nonostante gli altri studenti siano più abbienti di lui, nonostante Erica gli dica che ama ancora un fidanzato morto di tumore, nonostante ci sia tensione tra Pakistan e India. Con quel sorriso davanti alle immagini dell´11 settembre, tutto cambia. È Changez stesso a essere sorpreso del «notevole compiacimento» per il fatto che qualcuno era riuscito «a mettere in ginocchio gli Stati Uniti»: ma più si sente a disagio e in colpa per quella "felicità" più entra dentro la sua sensazione di diversità, all´aeroporto quando lo perquisiscono, per strada mentre guarda le mille bandiere americane che proclamano un desiderio di rivincita. Il suo mondo lentamente crolla come le Torri: tornato a Lahore per pochi giorni si fa crescere la barba, e così si ripresenta in America, in ufficio, a Erica che lentamente discende negli inferi di una struggente e alienante nostalgia per l´amore scomparso. Il lavoro non gli piace più. Dapprima finge, ma poi si licenzia, il suo idillio con l´America è finito, anzi, incomincia a maledirla, a sentirla come l´unico colpevole di tutti i mali del mondo, argomento su cui si esercita moltissimo trasformando un po´ troppo spesso il romanzo in un´invettiva politica. L´americano ascolta. Mohsin Hamid non gli dà mai la parola scegliendo la forma di un monologo accorato, a volte esaltato. Sappiamo comunque che la scena in quel bar di Lahore è tesa: qualche minaccia incombe, forse quella di un barbuto che si aggira con gli occhi torvi, forse quella adombrata da un rigonfio (una pistola?) sotto la giacca dello yankee. Incontriamo Mohsin Hamid a Notting Hill, Londra, in un piccolo bar. Si è sposato con una ragazza pakistana conosciuta a Londra, lavora ancora come analista finanziario ma solo per tre giorni alla settimana: è in testa alle classifiche di Barnes&Nobles e lo sa. Insomma, è cambiato rispetto a sei anni fa quando lo incontrammo per Nero Pakistan. È più sicuro di sé, anche troppo. Mister Hamid è lei quello che sorride davanti al crollo delle Twin Towers? «No». Eppure gli assomiglia così tanto. Pakistani tutti e due, allievi di successo a Princeton, analisti finanziari apprezzati, il breve ritorno a Lahore dopo l´11 settembre, la scelta di lasciare gli Stati Uniti... «Ma non sono io. Innanzitutto Changez ha 22 anni: io ne avevo 31. Ho vissuto in tutto 15 anni a New York - Changez solo 2 - , perché da bambino ho abitato lì 5 anni. Quando ne sono venuto via per trasferirmi a Londra, ero mezzo americano. Col romanzo volevo esplorare qualcosa di estraneo, di diverso da me. Perché nessuno mi domanda mai se io non sia invece l´americano che ascolta?». Quell´uomo non ha mai la parola: non ha nessun argomento da esporre. Non può essere lei. «Ma in me l´americano esiste e parla forte. Concepisco questo libro come una prima puntata: ho intenzione di scriverne una seconda che sarà il contrario, e darà voce all´americano, all´Occidente». È per questo che ha scelto la forma del monologo? «Sì. Con la presenza di un´altra persona però. Volevo mandare un segnale: come si sta a sentire uno pieno di pregiudizi? Volevo che il lettore si sentisse a disagio. Perché in Occidente avviene il contrario: ascoltiamo solo una visione totalmente occidentale dei fatti». Questo davvero non lo può dire: c´è un´attenzione fortissima alle opinioni dei musulmani, e anche una continua tendenza ad autocolpevolizzarsi. «In Europa forse. Ma non in America, non sui grandi canali televisivi, dove la critica a Washington è rarissima». Lei scrive sul magazine del New York Times, questo suo romanzo è diventato subito il N.1 della classifica di Barnes&Nobles: in realtà l´Occidente legge famelicamente gli scrittori musulmani, pensi al successo del Cacciatore di aquiloni. «Khaled Hosseini sostiene l´opposto di quel che penso io. Il Terrorista riluttante ha successo perché è un fatto nuovo. E comunque ci tengo a sottolineare che un romanzo non è un saggio politico. Se voglio esprimere la mia opinione politica lo faccio scrivendo un articolo. Ho già criticato Islamabad col mio primo libro Nero Pakistan, indicando la droga, l´ipocrisia, la corruzione come i mali del mio paese. Changez - il protagonista - non è una scusa per scrivere un saggio politico, ma piuttosto un modo per mostrare a cosa possano portare in un giovane uomo la combinazione di insicurezza, invidia, confusione mentale, senso di impotenza. Il romanzo è la storia di un ragazzo che chiede di essere ascoltata, mentre in genere non c´è l´empatia necessaria per porgergli attenzione. Questa è la grande possibilità che dà la letteratura». Il libro comunque in molti passi assomiglia a un anatema politico contro l´America. «Changez non è solo antiamericano. Una parte di lui vuole essere americana, sente la mancanza degli Stati Uniti, e in Pakistan non ha trovato pace». In effetti non è chiaro cosa gli faccia cambiare completamente idea: l´America l´ha accolto con tutti gli onori e lui inizia a odiarla. «In lui avviene un crack, e l´11 settembre è solo il momento scatenante. Changez si vergogna di quel che è e al tempo stesso ne è orgoglioso. La sua famiglia non è ricca, ma fra i suoi compagni fa finta di esserlo. E se si fa crescere la barba, non è perché diventa religioso, ma perché lo fa sembrare più virile. La donna che lui desidera, Erica, lo accetta, ma ama un altro. L´America è forte, è un impero, ma non è il suo impero... ». Quando Changez parla sembra molto sicuro di sé. «Non bisogna credere a quel che dice: è una persona confusa. È eloquente, ma non sa chi è. Per fare sesso con Erica deve accettare che lei lo immagini come il suo fidanzato morto. Vive in America, mentre la sua famiglia è in pericolo a Lahore. Chi è questo 22enne, chi sono questi 22enni? Molti sono dei ragazzi ingarbugliati, che cercano di essere maschili anche per divenire adulti: pensi a quelle manifestazioni piene di barbe, di fucili, di slogan aggressivi, senza donne: le guardiamo con fatica, e parlano di una crisi psicologica profonda». Parlano anche di un´identità, di un´ideologia diffusa e violenta, che sa diventare terrorismo. «Se si pensa al breve periodo sì. Ma voglio ricordarle i tedeschi degli anni Trenta: poi sono cambiati». Hanno fatto in tempo a fare quel che hanno fatto. «Se vogliamo vedere il fondamentalismo solo come un conflitto politico, possiamo credere che non sia risolvibile. Ma il piano psicologico ci permette di vedere il lato umano di quel che avviene. Quel che suggerisco è di avere meno paura degli uomini, di essere meno sospettosi. Ormai se definiamo le persone in base alla loro religione sembra di parlare di specie animali diverse. Ma una parte importante di noi ha poco a che fare con la religione, ed è invece individuabile per le sue caratteristiche psicologiche, che rendono gli altri meno diversi da noi». Lei parla come se il terrorismo non esistesse. «La gente muore molto di più di malattia, fame, malaria che per il terrorismo». Gli attentati che hanno colpito Madrid, Londra, New York, Israele e tanti paesi islamici sono un fatto. «Lei è paranoica». Anche il finale del suo libro prevede un atto di terrore: qualcuno attenterà alla vita dell´americano, o sarà lui a uccidere. «Questo lo dice lei. E se invece non avvenisse niente? È proprio questo il senso del romanzo, noi ci aspettiamo un delitto politico, noi percepiamo un pericolo, ma ci sono solo un estremista islamico e un americano, e forse tra di loro non succederà alcunché. Conosco decine di barbuti che odiano gli americani ma non ucciderebbero nemmeno una mosca». I barbuti talebani uccidevano, eppure lei, quando nel libro Changez si inalbera contro l´intervento militare in Afghanistan non li nomina nemmeno, né loro, né il loro feroce regime. «Perché il mondo islamico non accettò l´invasione, ci fu solo rabbia. Si pensò che era una risposta sbagliata ed era così. I talebani erano un regime terribile, ma meno terribile dell´anarchia che dominava con i signori della guerra». Squilla il telefono. Mohsin deve andarsene. Era previsto. Viene da ripensare alle parole pronunciate, dopo le Twin Towers, da un altro scrittore pakistano che vive a Londra, Nadeem Aslam, autore del bel Mappe per amanti smarriti (Feltrinelli). Lui disse: «mi sono chiesto se nella mia vita ho saputo condannare i piccoli 11 settembre che accadono ogni giorno».