Finche' non ci sarà uno Stato palestinese, il problema dei confini non verrà risolto. Ne' la definizione dello status degli arabi di Gerusalemme troverà definitiva attuazione. Inutile nasconderlo. Ma questa semplice constatazione non deve impedire allo Stato d'Israele di celebrare la sua capitale. Le minoranze devono esigere libertà e giustizia, non la resa dello Stato che li ospita. Gli arabi poi, come è scritto sotto al titolo, non sono affatto "esclusi", dalla celebrazione. Certo, loro di celebrazione ne vorrebbero un'altra, ma questo è un altro discorso. Riprendiamo dalla STAMPA di oggi 13/05/2007, a pag.17, l'analisi di Francesca Paci sui 40 anni della riunificazione, ricordando che è vero che un terzo degli abitanti di Gerusalemme sono arabi, ma che due terzi sono ebrei. Avranno il diritto di celebrare o devono servire solo da contorno alle lamenmtele arabe ?
Ecco l'articolo:
Dafna è molto emozionata: mentre la mamma serve il tè nella veranda affacciata sulla porta di Jaffa intreccia scioglie e rintreccia i lunghi capelli castani. Oggi pomeriggio, insieme a un centinaio di ragazzini della sua scuola, distribuirà fiori e spillette con l’effige di Gerusalemme sulla piazza del Municipio addobbata per la performance del cantante folk Yehuda Elias. Nur invece resterà a casa a fare i compiti: abita in Nablus road, un paio d’isolati di distanza dalla festa, basterebbe affacciarsi alla finestra per ascoltare la musica. Ma papà Samir le ha spiegato che l’orchestra non suona per lei: «Noi siamo palestinesi», dice seria e po’ delusa. La prossima ricorrenza cerchiata sul calendario della cucina dove studia le tabelline è il 15 maggio, la «nabka», la data della «tragedia» in cui gli arabi ricordano la nascita dello Stato d’Israele. Non proprio carnevale per una bambina alle prese con le addizioni.
Gerusalemme celebra i suoi primi quarant’anni da città «unificata» e non bada a spese. Una maratona di concerti e fuochi pirotecnici che inizia stasera e termina alla fine dell’anno cedendo la staffetta al 2008, sessantesimo anniversario della fondazione d’Israele. L’amministrazione ha stanziato un milione di schekel, circa 200 euro, per illuminare ponti, parchi, le vecchie mura. I collezionisti fanno la fila per prenotare la moneta d’oro appena coniata, due facce, una sola identità. Poi, quando il tassista Janiv, bandierina bianca e azzurra sul cofano e stella di David al collo, ti fa scendere al confine di Silwan perché «quei quartieri lì non sono sicuri», capisci che il Jerusalem Day è una festa a metà. Una cortina invisibile separa la zona araba da quella israeliana, est e ovest, oriente e occidente. Corre lungo la linea verde del ‘67 ma spesso sconfina, frontiera culturale impalpabile come i pregiudizi e più resistente dei muri di cemento.
«Non ho mai capito cosa significhi questa data», osserva Jumana Adbullah, 24 anni, studentessa di lingue all’ateneo di Bir Zeit. «Se è tanto per far baldoria d’accordo, ma se rappresenta l’unificazione della città dopo la guerra dei Sei giorni è una follia: nessun matrimonio è possibile senza l’accordo di entrambi gli sposi». Oltre un terzo dei 750 mila abitanti di Gerusalemme è arabo-israeliano.
Jumana è nata qui come i suoi genitori, vive a Wadi el Joz, vicino alla Hebrew University, nel 1967 semplicemente un quartiere oggi un quartiere est: «Ho il permesso da "residente permanente" e posso muovermi tranquillamente, ma se volessi iscrivermi alla Hebrew sarei considerata straniera e dovrei pagare una tassa molto più alta delle matricole israeliane». Piuttosto sopporta due ore al giorno di autobus per andare a Ramallah e tornare. Questione di soldi, ma soprattutto di principio.
Gerusalemme ha un’anima divisa in due. La tensione è il filo trasparente che lega una metà all’altra. Se fosse solo per l’aggressività degli automobilisti, il nervosismo diffuso, l’aria guardinga dei passanti, non ti accorgeresti di essere nella parte araba o in quella israeliana. Ma la cortina c’è e durante i preparativi del Jerusalem Day ci sbatti di continuo.
Lungo i vialetti dell’Indipendence Park, tempio dei barbecue del sabato, chioschi di birra incorniciano il palco di «Shaking the Walls», festival musicale studentesco dal titolo idealista di «Far tremare i muri». Al mixer c’è anche Ezra che venerdì ha manifestato con i militanti di Peace Now per chiedere al suo governo di rendere ai palestinesi la zona est: «È la loro città». Eppure, potenza dell’incomunicabilità, le chitarre elettriche prestate alla colonna sonora della conquista del ‘67 diffondono un’eco minacciosa in Salah Ed Din, la via commerciale della Gerusalemme araba.
«Vogliono ebraicizzare tutta la città», osserva Ramzi, un negoziante di materiale elettrico che oggi, per protesta, terrà la saracinesca abbassata. Non sarà l’unico a osservare il lutto in Salah Ed Din, az-Zahra Street, Anata, Beit Hanina, tra quelli che al Jerusalem Day preferiscono l’Al-Quds Day, l’ultimo venerdì di Ramadan dedicato al mito della Gerusalemme musulmana: «Dice un proverbio arabo: "Hai mandato l’asino in cima al minareto e ora non sai farlo scendere". È dai tempi della sfida tra Barak e Netanyahu che i politici israeliani promettono Gerusalemme capitale per guadagnare i voti della destra. Come tornano indietro adesso?».
Le vetrine delle librerie a ovest espongono il saggio di Dore Gold «The Fight for Jerusalem» che spiega perché la culla delle tre religioni debba restare in mano ebraica. Dipende dai punti di vista. E c’è chi, sotto anonimato, ammette che pur fiera delle sue origini palestinesi non vivrebbe in una Gerusalemme araba: «Purtroppo lo so, la rovineremmo». Ma questo è un altro dei muri invisibili che dividono la città.
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