Sul CORRIERE della SERA di oggi, 12/05/2007, a pag.19, la prima puntata di un servizio di Sergio Romano dalla Siria. Dall quale apprendiamo la natura laica dello Stato e la sua " cultura politico-economica europea". Curioso, un paese come la Siria, specializzato nello scatenare guerre contro Israele, che ancora oggi è zona di transito di armi fra Iran e Hezbollah in Libano, dove Damasco è la sede di Hamas e altre organizzazioni terroristiche, secondo Romano ha una " cultura politico-economica europea". In quanto agli ebrei siriani Romano liquida l'argomento in poche parole, " Nel quartiere ebraico, ormai quasi interamente svuotato dei suoi vecchi abitanti...", così, come se si trattasse di un magazzino, che viene "svuotato", non di una intera comunità costretta a fuggire pena la morte. Ma questi sono dettagli per Sergio Romano, meglio tirarla via in fretta la questione, che circa 800.000 ebrei siano stati cacciati dai paesi arabi non gli interessa, è il regime laico siriano che va lodato, un paese dove tutto sommato si vive bene. Un omaggio alla Siria da Sergio Romano, il trombettiere di turno.
Ecco l'articolo, dal titolo " Quei veli che sfidano il regime laico di Damasco":
Lo Stato laico, nel mondo musulmano, è una creatura gracile, assediata da ondate di fervore religioso e integralismo islamico. In Egitto il governo vieta i partiti confessionali, ma non è riuscito a impedire che il popolo mandasse in Parlamento, un anno e mezzo fa, 88 deputati uniti dal più conciso dei programmi politici: «l'Islam è la soluzione». In Turchia i laici hanno perduto il governo della nazione e sono scesi in piazza per difendere ciò che ancora rimane dell'eredità di Kemal Atatürk. In Pakistan il generale Musharraf governa un Paese dove le 10.000 scuole religiose (madrasse) hanno formato per poco meno di tre decenni i quadri ideologici e militari del fondamentalismo. Non vi è Stato prevalentemente musulmano, dal Marocco all'Indonesia, dove la laicità della cosa pubblica non sia contestata e minacciata. Quasi ovunque la religione e i suoi servitori hanno cominciato a riprendersi ciò che avevano perduto negli anni in cui il Medio Oriente era in buona parte governato da presidenti in uniforme, discepoli del grande Kemal.
Esiste tuttavia, con caratteri alquanto particolari, il caso siriano. La Siria è laica, non permette la costituzione di partiti confessionali ed è stata governata per ventinove anni, fra il 1971 e il 2000, da un generale, Hafez al Assad, che nel 1982 non esitò a stroncare duramente, con l'intervento dell'esercito, una rivolta musulmana nella città di Hama. Vi è un luogo, a Damasco, dove questo primato della politica sulla fede viene plasticamente rappresentato. È una bella moschea costruita nel 1554 dal grande Sinan, il più geniale degli architetti ottomani. Fa parte di un'«opera pia» (la Takiyya as-Suleimaniyya) ed è al centro di un complesso architettonico che raggruppa una scuola coranica, gli alloggi dei «seminaristi», le botteghe degli artigiani. Ma una parte di questo complesso è occupata oggi dal museo dell'Esercito. Di fronte al porticato dalla moschea, dove i fedeli s'inginocchiano per le loro devozioni, il museo ha collocato alcuni dei suoi pezzi migliori: un aereo da caccia Mig, un cannone, una mitragliatrice e altre armi di fabbricazione sovietica. Più in là, accanto a un piccolo giardino dove qualcuno prende il fresco fumando una sigaretta, vi sono una statua dorata di Hafez al Assad, un grande ritratto marmoreo in bassorilievo del figlio Bashar (salito al potere nel 2000, dopo la morte del padre) e infine un ritratto dell'intera famiglia: a sinistra Basel (l'erede designato che morì a 31 anni in un incidente automobilistico nel gennaio 1994), al centro il padre Hafez, a destra Bashar.
Questo trittico appare frequentemente sui muri delle città siriane e ricorda al passante che la Siria è una repubblica dinastica in cui la legittimità del potere è garantita da due fattori: la discendenza dal capostipite e il crisma del Baath, il partito laico e socialista a cui appartengono i dirigenti politici e buona parte dei quadri amministrativi del Paese. Qui non vi è spazio per imam, ulema e ayatollah con le loro fatwa e le loro infuocate prediche del venerdì. Qui il potere veste abiti occidentali e ha una cultura politico-economica europea. I suoi punti di riferimento non sono le monarchie teocratiche, come quella arabo-saudita, o le repubbliche islamiche, come quella iraniana. Dopo essere stata per vent'anni una «repubblica popolare» del Levante, la Siria sta prudentemente spostandosi verso occidente con riforme politiche e soprattutto economiche di cui parlerò in un'altra occasione. Ed è dichiaratamente, orgogliosamente, laica.
Questo non significa che l'identità musulmana del Paese sia diventata insignificante. Le moschee sono piene di fedeli. La voce dei muezzin annuncia, dall'alto dei minareti, l'ora della preghiera. Molte donne hanno il capo coperto e alcune hanno il volto interamente nascosto da un velo nero, ancora più cupo e impenetrabile del burqa afghano. Può persino accadere (mi è successo ad Aleppo) che il visitatore s'imbatta nel sacrificio di un montone, ucciso sulla pubblica via per proteggere un negozio dal malocchio. Ma il regime, per meglio garantire la propria neutralità religiosa, conserva e protegge la multiconfessionalità siriana come un bene nazionale.
La Siria è il crocevia dei monoteismi, il Paese del Medio Oriente che appartiene in eguale misura alla storia della Cristianità, dell'Islam e dell'Ebraismo. Questa contiguità storica fra religioni che vantano gli stessi antenati, fra la conversione di Paolo e la tradizione del califfato ha prodotto contaminazioni affascinanti. Nella grande moschea degli Omayyadi, a Damasco, una grande tomba custodisce la testa di San Giovanni Battista. Nel museo nazionale è stata trasportata e ricostruita la sinagoga di Dora Europos (un'antica città sull'Eufrate a breve distanza dalla frontiera irachena): la sola al mondo interamente affrescata con storie dell'Antico Testamento. Nel quartiere ebraico, ormai quasi interamente svuotato dei suoi vecchi abitanti, una sinagoga apre il sabato per le sessanta famiglie che ancora vivono nella città. Nel villaggio di Maalula, a 60 km dalla capitale, gli abitanti parlano aramaico, la lingua di Gesù, e vivono all'ombra del monastero di Santa Tecla, martire cristiana e, forse, discepola di San Paolo. Nella maggiore moschea di Aleppo una tomba conserva la testa di Zaccaria, padre di Giovanni. Il quartiere cristiano della città è una sorta di compendio della storia del cristianesimo, una vetrina di reperti religiosi dove si allineano, a breve distanza l'una dall'altra, le chiese degli ortodossi, degli assiri, dei caldei, degli armeni, dei melchiti, dei maroniti. Il «feroce Saladino», sepolto nel recinto della grande moschea, e San Simeone
STRADA Donna velata, poster di Hafez Assad
stilita, il cui santuario sorge a qualche decina di chilometri dalla città accanto alle valli abitate dai curdi, sono egualmente presenti nell'albero genealogico del Paese.
Ad Aleppo l'Italia ha un console generale onorario, Georges Antaki, discendente di un'antica famiglia cristiana del Levante. Antaki mi spiega come la città riesca a evitare che l'osservanza del Ramadan e delle due feste religiose settimanali (il venerdì e la domenica) paralizzino la città e ne sconvolgano l'economia. Se hanno i loro negozi nei quartieri musulmani, i commercianti cristiani chiudono il venerdì e lavorano la domenica. Se hanno i loro negozi nel quartiere cristiano, i commercianti musulmani fanno il contrario. Se un cristiano vuole parlare d'affari con un musulmano attorno a una tavola bandita durante il digiuno del Ramadan, lo invita a pranzo dopo il tramonto. Se i cristiani, durante la giornata, vogliono dimostrare rispetto per le privazioni che i loro amici musulmani impongono a se stessi, evitano di mangiare e bere in loro presenza.
Queste pratiche quotidiane non sono soltanto forme di cortesia e regole di buon vicinato. Sono il segno esteriore della tolleranza con cui il governo laico garantisce la convivenza delle sue comunità religiose. Mentre in molti Paesi dell'Islam l'identità musulmana prevale sul concetto di cittadinanza, qui (come in Egitto, in Iraq all'epoca di Saddam Hussein e in Palestina) l'appartenenza allo Stato viene prima della religione. È questo probabilmente il motivo per cui la maggior parte dei cristiani in fuga dall'Iraq (circa 40.000 fra caldei, assiri, armeni e ortodossi) vivono oggi a Damasco. Ma di questo esodo e di quello ben più vasto che ha riversato sulla Siria un milione e duecentomila iracheni, prevalentemente sunniti, parleremo in un'altra occasione.
(1 — Continua)
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