Verbale di polizia Imre Kertész, Péter Esterhàzy
Traduzione Giorgio Pressburger
Casagrande Euro 12,00
C’era una fila immensa davanti al Berliner Ensemble, la sera in cui Imre Kertész e Péter Esterhàzy lessero insieme a Berlino "verbale di polizia", che esce ora in italiano, magnificamente tradotto da Giorgio Pressburger. Era il mese di gennaio di quattro anni fa.
Qualche centinaio di giovani erano venuti un paio d’ore prima dell’apertura del botteghino sperando in una chance dell’ultimo minuto, dopo che da giorni i biglietti erano esauriti. Aspettavano al freddo, sulla neve che cominciava a sciogliersi, scambiandosi i romanzi del premio Nobel appena tradotti in tedesco. "Una storia, due storie" era intitolata la serata.
Due racconti a specchio, un duetto, un canto alternato tra i due più grandi scrittori ungheresi del nostro tempo. Il primo è Imre Kertész, premio Nobel, che era sopravvissuto a Auschwitz a sedici anni e aveva passato il resto della sua vita sotto un altro totalitarismo – cosa che alla fine è stata quasi una fortuna, sostiene lui nel suo radicale pessimismo, perché "la continuazione della prigionia gli ha impedito di farsi qualsiasi speranza, prima di venir raggiunto dall’onda della delusione". Come invece è accaduto ad altri sopravvissuti ai campi di sterminio, come Primo Levi. L’altro è l’aristocratico Péter Esterhàzy, la cui famiglia era stata spogliata di tutti i beni dal comunismo prima della sua nascita (ma non della consapevolezza di aver dato all’Ungheria principi, primi ministri, cardinali e perfino un giocatore della invitta nazionale di calcio).
Il viaggio di cui raccontano le due storie avrebbe dovuto essere un viaggio normale, da Budapest a Vienna. Per Kertész un viaggio di lavoro, ma anche " un cambiamento d’aria e di luogo", necessario "dal punto di vista della salute e della creatività, della mobilità continua dell’anima….Quel desiderio di ristoro spirituale, quella predisposizione a pensare a noi stessi come a esseri umani individuali, anzi come a essere umani tout court, non sarebbe venuta a galla dal suo antico e profondo stato di incoscienza senza la suggestione dovuta a una personale illusione di libertà". Siamo nel 1991 e il Muro è caduto, ma l’illusione di libertà è destinata a restare tale. Per un importo di valuta superiore alle prescrizioni, e un doganiere che lo obbliga a scendere dal treno prima del confine. "Dietro alla subdola domanda di quest’uomo della dogana, nelle mie orecchie rimbombavano passi di stivali, risuonavano canti di movimenti operai…. E davanti ai miei occhi si ergevano grate di prigioni e recinti di filo spinato.Colui che ha risposto a quella domanda non ero io, bensì il cittadino angariato da decenni, addomesticato, leso nella coscienza, nella persona, nel sistema nervoso, se non proprio ferito a morte – ma forse è meglio dire carcerato, anziché cittadino".
Péter Esterhàzy si trova a vivere una situazione simile dal punto di vista di chi è nato dopo e ha subito meno mortificazioni dalla vita. Lui si sente ormai "figlio di una libera nazione". Ma quando il doganiere gli chiede quanto denaro ungherese abbia indosso, quella frase evoca in lui "una visione sanguinosa, sia maledetta la letteratura, lo scritto di Imre Kertész intitolato Verbale di polizia che eleva (o meglio spinge, forza) un caso doganale di questo tipo a emblema esistenziale. Lo vidi, vidi la sua figura lunga, curva, pesante, quasi un anti Michele-Kohlhaas, che non cerca la sua giustizia perché la sua giustizia ha già trovato lui. Fu questo l’istante in cui scoprii in me, irrevocabilmente, la paura. Il fatto che c’era, nonostante tutto, la paura in me. Allo stesso modo in cui ci sono dentro di me polmoni, fegato, cervello. Non si può avere paura solo occasionalmente, si può avere paura soltanto per l’eternità". L’uomo non ha destino, almeno non uno proprio, dice Kertész. E tuttavia al destino non può sottrarsi.
Vanna Vannuccini
La Repubblica