I ministri degli Esteri di Egitto e Giordania discuteranno il piano saudita in Israele come rappresentanti della Lega araba
Testata: La Stampa Data: 11 maggio 2007 Pagina: 18 Autore: Francesca Paci Titolo: «Storico vertice Presto in Israele i leader arabi»
Dalla STAMPA dell'11 maggio 2007
DA GERUSALEMME I capi della diplomazia egiziana e giordana, Ahmed Aboul Gheit e Abdallah al Khatib, saranno presto ospiti in Israele nel ruolo di rappresentanti ufficiali della Lega Araba per discutere il piano di pace saudita. È il risultato più importante dello storico incontro di ieri al Cairo tra il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni e il presidente egiziano Hosni Mubarak. «Il prossimo summit sarà un evento storico per il Medioriente», ha commentato dopo un’ora e mezza di conversazione la Livni, erede ideale dell’ex premier Ariel Sharon, del ritiro sia pur unilaterale da Gaza e della variazione genetica del Likud nel nuovo partito moderato Kadima che i falchi della vecchia guardia non perdonano. Sarebbe una novità assoluta: la prima volta che una giornalista israeliana ha messo piede a Riad è stato a marzo, in occasione del lancio dell’iniziativa di pace. Il resto è un deserto di incomunicabilità. Nonostante Egitto e Giordania siano gli unici paesi arabi ad aver avviato relazioni diplomatiche con Israele infatti, i rapporti tra vicini di casa sono tutt’altro che pacificati. L'importanza del vertice del Cairo è duplice. Da una parte, su scala internazionale, Israele avvia un dialogo con i ventidue recalcitranti membri della Lega gettando le basi per un partenariato ormai fondamentale alla sopravvivenza reciproca. Il piano saudita, che prevede il ritiro totale dai territori palestinesi occupati ne 1967, tende in cambio la mano all’«entità sionista», che verrebbe così riconosciuta dai nemici giurati. Dall’altra, sul fronte interno, Tzipi Livni guadagna credibilità tra gli israeliani in crisi. Il rapporto Winograd ha sollevato il coperchio di un vulcano in ebollizione. Ci sono cortocircuiti interni ai partiti: il ministro degli Esteri che si candida al posto del premier e poi decide di restargli a fianco; Ehud Barak che chiede le dimissioni del governo ma offre la sua disponibilità al ministero della difesa fino alle prossime elezioni; Bibi Netanyahu, il più amato dagli israeliani, in attesa della mossa più strategica per ottener il massimo dei consensi alle urne. Ci sono gli studenti che ieri hanno manifestato a centinaia davanti alla casa del premier, a Gerusalemme, bandiere rosse e cartelli contro le tasse universitarie, mescolando la loro rabbia a quella dei pacifisti in sit-in permanente perché dopo la disastrosa gestione della seconda guerra del Libano il governo levi le tende. Ci sono gli intellettuali come Amoz Oz, che durante un dibattito con il presidente della Al Quds University, il palestinese Sari Nusseibeh, ammicca alla platea: «Israele è una macchina, la sua democrazia non dipende dal motore ma da chi la guida. Attualmente non abbiamo un guidatore molto esperto». La confusione è grande sotto il cielo israeliano ma, a differenza di quanto pensasse Mao in casi del genere, la situazione non è eccellente. Mentre Tzipi Livni chiede un'apertura di credito al mondo arabo, includendo la Siria nella rosa degli interlocutori necessari, Damasco chiude le porte, confermando la paura diffusa di una nuova guerra per le alture del Golan, conquistate da Israele nel '67 e mai restituite. Ieri il presidente Assad ha ribadito che «tra Siria e Israele non è in corso alcun contatto». Un muro invalicabile fin quando «Israele rinuncerà alle terre occupate quarant'anni fa». Un bel da fare per il ministro degli esteri erede di Sharon.
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