Una visione parziale della politica saudita quella proposta da Sergio Romano
Testata: Corriere della Sera Data: 09 maggio 2007 Pagina: 41 Autore: Sergio Romano Titolo: «I Saud, dinastia alla ricerca di una politica»
Nè il finanziamento di una rete mondiale di propaganda d'odio verso l'Occidente, l'America, Israele e gli ebrei. Nè i legami tra i servizi segreti del regno e il terrorismo. Nè il fatto che il piano di pace presentato nel 2002 vincolava il riconoscimento di Israele al riconoscimento al "diritto al ritorno dei profughi palestinesi" che Israele la farebbe scomparire. Nulla di tutto ciò si trova nella ricostruzione della politica dell'Arabia Saudita proposta da Sergio Romano nella risposta a un lettore sul CORRIERE della SERA del 9 maggio 2007:
L'Arabia Saudita, con le iniziative per accelerare il processo di pace in Medio Oriente, vuol far credere di avere buone intenzioni. Mi sembra poco credibile, dato che con i soldi ricavati dal petrolio finanziano estremisti al di fuori dei loro confini, per avere la legittimazione alla custodia dei luoghi sacri dell'Islam. Quando Re Saud, il 14 febbraio 1945, sull'incrociatore Quincy, firmò quell'«intesa patogena» con Roosevelt, era già chiaro che i regnanti sauditi avevano la coda di paglia. Ora la diplomazia mondiale come deve comportarsi con uno Stato che ha il controllo energetico del pianeta? Martino Salomoni martinosalomoni@tiscali.it
Caro Salomoni, credo che il suo giudizio sull'Arabia Saudita cambierebbe se lei tenesse conto di alcuni fatti storici. La nascita del regno dei Saud, all'inizio degli anni Venti, fu il trionfale epilogo dell'irresistibile ascesa di un clan del deserto che si era progressivamente impadronito della penisola ed era divenuto proprietario di due beni egualmente preziosi: i maggiori luoghi santi dell'Islam (la Mecca e la Medina), meta tradizionale di grandi pellegrinaggi collettivi, e gli straordinari giacimenti petroliferi che si nascondevano sotto le sabbie del deserto. La conservazione delle due ricchezze impose ai Saud una doppia alleanza. Per giustificare la custodia dei Luoghi santi, il fondatore del regno stipulò una sorta di Concordato con una fazione religiosa che si ispirava agli insegnamenti di un «controriformatore», Mohammed Ibn Abd al-Wahhab, teologo del rigore islamico, vissuto nella seconda metà del XVIII secolo. Per sfruttare il proprio patrimonio energetico e difendersi da coloro che avrebbero cercato di impadronirsi del suo territorio, il re concluse il patto con Roosevelt a cui lei accenna. Ma le due alleanze erano potenzialmente incompatibili ed esponevano il regno arabo-saudita al rischio di finire «squartato» fra due cavalli che tiravano il Paese in direzioni opposte. Non fu facile per i Saud essere amici dell'America quando gli Stati Uniti diventarono i maggiori protettori dello Stato d'Israele. E non fu facile resistere alle pressioni del clero quando l'Islam, nella seconda metà degli anni Settanta, cominciò ad assumere una fisionomia sempre più radicale e aggressiva. Il momento di maggiore potenziale contraddizione fu quello della prima Guerra del Golfo. Minacciato dall'imperialismo di Saddam Hussein, re Fahd ritenne giunto il momento di chiedere agli Stati Uniti l'aiuto militare previsto dall'intesa con Roosevelt. Naturalmente fu necessario permettere che le forze americane s'installassero in territorio saudita. Ma occorreva anche convincere gli ulema wahhabiti ad accettare una situazione che appariva al clero radicale «sacrilega». L'Arabia Saudita, pagò il prezzo di quella decisione con due attentati organizzati probabilmente da gruppi salafiti: il primo a Riad nel novembre 1995 e il secondo nella base americana di al-Khobar nel giugno dell'anno seguente. Ma il colpo maggiore contro il regno dei Saud fu l'attacco alle torri l'11 settembre 2001 e in particolare la rivelazione che nella cellula degli attentatori i cittadini sauditi erano 15. Fu chiaro che l'islamismo aggressivo era riuscito a mettere radice nel Paese. Il principe reggente Abdullah capì che il regno correva il rischio di perdere contemporaneamente i due grandi alleati, l'Islam e l'America, che erano stati sino ad allora i contrafforti dello Stato. Ne ebbe la prova quando molti neoconservatori americani sostennero pubblicamente che la guerra contro Saddam avrebbe avuto un altro effetto positivo, oltre all'eliminazione del tiranno: quello di rendere gli Stati Uniti meno dipendenti dall'Arabia Saudita per le loro esigenze energetiche. E ne ebbe un'ulteriore conferma quando, nel 2003, dopo l'occupazione americana dell'Iraq, il suo Paese subì due gravi attentati islamisti: il primo a Riad il 12 maggio e il secondo nella stessa città l'8 novembre. Occorreva correre ai ripari con riforme politiche e segnali internazionali che convincessero il mondo della fermezza di cui il regno avrebbe dato prova per affrontare la situazione. E occorreva tagliare alle radici il male (la questione palestinese) che minacciava la stabilità della regione. Uno dei suoi primi gesti, nel febbraio del 2002, fu una coraggiosa proposta per la soluzione della questione palestinese: il riconoscimento dello Stato israeliano, se il governo di Gerusalemme avesse accettato di abbandonare i territori occupati nel 1967. La proposta non piacque a Sharon, deciso a realizzare la sua strategia unilaterale, e lasciò indifferente, di conseguenza, la presidenza americana. Ma Abdullah continuò a perseguire la sua doppia linea. La morte di re Fahd gli ha dato maggiore libertà. Divenuto re nel febbraio 2005, ha potuto prendere iniziative difficili e potenzialmente impopolari. E ha continuato a farlo da allora anche per evitare che la guerra americana avesse il paradossale risultato di rafforzare il ruolo dell'Iran sciita nella regione. Non so, caro Salomoni, se queste iniziative sortiranno qualche effetto. Ma credo che corrispondano agli interessi del Paese e ho l'impressione che buona parte della sua classe dirigente ne sia oggi consapevole.
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