Non è pacifismo, ma volontà di vincere la prossima guerra, e di sopravvivere Fiamma Nirenstein sul rapporto Winograd e sulle manifestazioni per le dimissioni del governo Olmert
Testata: Il Giornale Data: 07 maggio 2007 Pagina: 1 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «La malattia della pace»
Dal GIORNALE del 7 maggio 2007, un editoriale di Fiamma Nirenstein
Make no mistake, direbbe George Bush. Quello a cui stiamo assistendo in Israele, non è quella scena di contrizione, pena, vergogna, che vedete descritta anche sui giornali italiani con una certa soddisfazione. Non è la dichiarazione di fine della deterrenza israeliana, e quindi l’obituario dello Stato ebraico. Non è una contrizione rispetto al tema stesso della guerra, dell’esercito, dell’uso della forza. Qualcuno, come lo scrittore Meir Shalev che ha parlato in piazza Rabin a Tel Aviv la presenta così, ma si tratta di un’interpretazione su cui la sinistra israeliana, ormai da molti anni in crisi dato il pessimo uso fatto dai palestinesi di tutte le proposte israeliane di scambiare «land for peace», cerca di prendere un passaggio. Shalev può auspicare e forse aiutare a vincere una leadership che faccia aratri dell’acciaio della spada, come vuole la Bibbia; Hezbollah e Hamas useranno l’occasione per dimostrare di nuovo che le armi sono più interessanti. Di fatto il volume di critiche che il giudice Winograd ha recapitato nelle mani degli accusati e descritto loro, causandone il giusto, pubblico ludibrio con autentica escoriazione democratica, è un documento totalmente non ideologico. È un pratico, asciutto, per quanto orripilante, catalogo di tutti gli errori possibili che si possono fare in guerra, ma non ha nulla a che fare col pacifismo, non è una messa in scena di buoni sentimenti. Al contrario, semmai è un manuale per non perdere la prossima guerra. Ed è, senza remissione, il documento che un gruppo dirigente privo di modestia e di esperienza militare si merita per essersi fatto mettere nel sacco da una milizia sciita filoiraniana e terrorista bene armata, fornendo così all’Iran e ai suoi protetti, gli Hezbollah e anche Hamas, nuovi spunti di ispirazione, in uno scenario che sta acquistando la forma del fungo atomico. Nel rapporto si trovano tracce non tanto di una debolezza intrinseca, quanto di un accecamento ideologico e politico: è la certezza della classe dirigente che bisogna strizzare l’occhio al pacifismo per aver il successo politico che ha messo Israele in condizione di perdere la guerra. È l’improvviso risveglio da questo nirvana che fa onde tanto alte oggi. Non la ricerca di una leadership che cerchi accordi impossibili con nemici spietati. È per questo che in Israele non si incontra nessuno, o quasi, che sia favorevole a una permanenza di Olmert al governo, e ancor meno a quella di Peretz. Anche su Tzipi Livni, che piaceva all’opinione pubblica, vi è biasimo perché non si dimette. Ma se ogni israeliano, di destra e di sinistra, ha fiducia nel sistema che si è scelto, quello della democrazia rappresentativa, perché Yair Regev, il capo dei soldati delle riserve in rivolta, ormai tribuno della piazza, vuole così tanto cacciare Olmert e i suoi? Perché nessuno, sia chi fa la spesa allo Shuk di Mahanei Yehuda, tante volte saltato per aria per gli attentati terroristici, sia chi prende un caffè in Shderot Rothschild a Tel Aviv, sotto i grandi ficus benyamina dove l’aristocrazia intellettuale ashkenazita sosta in chiacchiere, è deciso a far dimettere Olmert? La risposta risiede nell’antropologia stessa del gruppo di Olmert dopo la scomparsa di Arik Sharon dalla scena: cinquanta-sessantenni borghesi, proiettati sulla speranza di un’Israele tutta high tech, finalmente normale, amanti del denaro e dei piaceri. Andava bene finché questo sogno è tramontato sul fallimento di Oslo, e poi dello sgombero da Gaza; l’ha spazzata via Ahmadinejad, e poi la scelta dei palestinesi di seguire Hamas, e poi le armi siriane che hanno di nuovo riempito le fortezze di Nasrallah nonostante la fiducia accordata all’Unifil... Questa classe dirigente è rischiosa, ormai, per la vita degli israeliani. Non le erano mancati i mezzi, l’esercito è tuttora dotato di uomini pieni di bravura e buona volontà, persino di giovani eroi; ma le riserve non si esercitavano se non sporadicamente. Lo si legge nel documento; e vi si spiega anche come per proteggere la vita dei suoi soldati Tzahal cercava semplicemente di tenersi lontano dagli Hezbollah e di non rispondere al fuoco mentre dal 2000, ovvero dal ritiro, gli Hezbollah seguitavano a sparare dentro Israele e costruivano la loro forza. Nel novembre del 2005 quando il Comando del Nord dette il permesso di distruggere una cellula di terroristi piazzatasi sul confine, il Capo di Stato Maggiore bloccò l’operazione. La mattina del 12 luglio, giorno del rapimento di Eldad e Goldwasser e dell’uccisione dei loro tre compagni, la ronda precedente alla loro tornò terrificata e raccontò che là fuori c’era l’inferno. Il comandante cercò di mantenere il ritmo: «business as usual», uscite e non sparate. Rispondere all’aggressività degli Hebzbollah è stato semplicemente proibito per anni, anche perché Sharon, dopo il trauma di Sabra e Chatila, si guardava bene dall’aprire un contenzioso. I piani, dice la commissione, per intraprendere un’operazione di terra contro gli Hezbollah, esistevano. Le informazioni di intelligence sullo stato delle forze della milizia terrorista erano precise. Ma nessuno le ha mai usate attivamente: la pace era obbligatoria. Adesso che è di moda ripetere quanto sia stata sconsiderata la scelta di un’operazione dall’aria, non si capisce ancora bene cosa si stia dicendo: la proposta del Capo di Stato maggiore, seguita ciecamente da Olmert e Peretz, piacque perché pareva garantire la salvaguardia delle vite dei soldati. E di per sé, non era perdente. Ma sia Dan Halutz che Olmert hanno rimosso scegliendola il fatto che un’operazione dall’aria risulta effettiva quando si sceglie di condurla senza tener conto del problema della guerra asimmetrica, l’uso dei civili come scudi umani. L’esercito non voleva certo bombardare a tappeto i villaggi, e non l’ha fatto, non lo farà. Per fortuna, diciamo noi. Dunque l’uso delle forze di terra era indispensabile. La malattia della classe dirigente israeliana dunque non è quella della guerra, ma semmai quella della pace. La cura indicata dalla commissione Winograd e dalla stessa società israeliana, quella che ha affrontato il terrorismo e le guerre senza fuggire e senza batter ciglio è molto più semplice e più complicata di quel che sembri a noi europei che strologhiamo sulla guerra senza conoscerla: cambiare classe dirigente e sopravvivere. Senza ridere e senza piangere.
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