Sul CORRIERE della SERA di oggi, 06/05/2007, Sergio Romano, nel rispondere a un lettore, scopre l'acqua calda: in Israele, persino sullo Yad Vashem, è possibile dissentire ! Non potendo definire Romano uno storico non preparato, si può solo concludere che, anche in un pezzo tra i meno antipatizzanti su Israele, un lieve digrignata di denti non poteva mancare.
Ecco il pezzo:
Il Nunzio Apostolico in Israele ha deplorato la didascalia che accompagna una foto di Pio XII in cui si legge, tra l'altro: «eletto nel 1939, il Papa mise da parte una lettera contro l'antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore». Gli studiosi di Yad Vashem chiedono al Vaticano di aprire gli archivi del pontificato di Pio XII per ottenere nuove e diverse informazioni da quelle note oggi. È probabile che Pio XII tacque per rispettabili motivi di preoccupazione circa possibili ritorsioni nei confronti dei cattolici nei Paesi dominati dai nazisti. Ma è incontestabile che Pio XI nel 1937 aveva condannato il regime nazista nell'enciclica «Mit brennender Sorge» e nel maggio 1938, in occasione della visita di Hitler a Roma, chiuse i Musei vaticani e si trasferì nella residenza estiva di Castel Gandolfo. Inoltre incaricò il gesuita americano J. La Farge di predisporre la bozza di una enciclica contro il razzismo e l'antisemitismo da intitolare «Humani Generis Unitas», di cui il Papa aveva esposto il tema nelle sue grandi linee. Il testo venne trovato sulla sua scrivania alla sua morte, il 10 febbraio 1939. Non le sembra che rimanga aperta la questione delle ragioni che indussero Pio XII ad accantonare il documento?
Gianni Fossati
gian.fossati@libero.it
Caro Fossati, dopo il libro di B. Passeleq e B. Suchecky dedicato all'«Enciclica nascosta di Pio XI» e pubblicato qualche anno fa da Corbaccio, esiste ormai sull'argomento una vasta letteratura. Ma sulle ragioni per cui Pio XII non volle dare corso al progetto del suo predecessore possiamo fare soltanto supposizioni. Forse papa Pacelli, agli inizi del 1939, temette che la solenne pubblicazione di un documento esplicitamente anti-tedesco avrebbe reso ancora più probabile la prospettiva di un conflitto che egli sperò di evitare fino all'ultimo momento. O forse continuò a pensare, come in passato, che il Terzo Reich, benché minaccioso e «pagano», potesse rappresentare un argine contro l'insidia comunista di cui egli era stato diretto testimone a Monaco di Baviera dopo la fine della Grande guerra. Fino a quando il diario di un contemporaneo o un appunto segreto non ci diranno quali fossero in quel momento le maggiori preoccupazioni del nuovo Pontefice, tutti saranno liberi di formulare le proprie ipotesi.
Ma la didascalia che irritò il nunzio a Gerusalemme e mise in forse per un paio di giorni la sua partecipazione alle cerimonie per la Giornata dell'Olocausto contiene altre accuse, ancora più gravi. Vi si afferma infatti che Pio XII, «nel dicembre 1942, si astenne dal firmare la dichiarazione degli Alleati con cui veniva condannato lo sterminio degli ebrei. Quando gli ebrei romani furono deportati a Auschwitz, il papa non intervenne e, a parte gli appelli indirizzati ai governanti dell'Ungheria e della Slovacchia verso la fine del conflitto, mantenne una posizione neutrale per tutto il periodo della guerra. Il suo silenzio e la mancanza di direttive costrinsero il clero, in tutta l'Europa, a decidere individualmente come comportarsi».
Su quest'ultimo punto invece vi sarebbero ora novità importanti. In un articolo apparso ne La Stampa del 19 aprile, («Pio XII alla Chiesa: "Salvate gli ebrei"»), Arrigo Levi ha scritto che, «a quanto pare, la direttiva ci fu». La rivelazione risale a pochi giorni fa ed è dovuta a un giovane studioso di storia dell'arte, Sandro Barbagallo, diplomato in archivistica alla Scuola dell'Archivio segreto vaticano. Nel corso di un dibattito su Pio XII e la didascalia di Yad Vashem, Barbagallo ha preso la parola per dichiarare di avere visto la «velina di una direttiva papale, inviata a tutti gli istituti religiosi». Secondo Marco Tosatti, vaticanista del quotidiano torinese, la velina sarebbe in possesso di «un monsignore particolarmente devoto alla memoria di Pio XII, che l'ha ricevuta molto tempo fa da una suora di un ordine presente a Roma». Una buona notizia, dunque, di cui siamo tutti felici. Ma gli storici, come i poliziotti e i magistrati, credono soltanto a ciò che possono vedere e toccare. Come osserva Arrigo Levi, è opportuno che la Santa Sede «renda nota ufficialmente la "direttiva", il suo testo e il modo in cui venne diffusa».
Altri lettori, caro Fossati, mi hanno chiesto un giudizio sulla reazione del nunzio che, come è noto, decise in un primo momento di non partecipare alle cerimonie e soltanto più tardi, forse sollecitato dal Vaticano, modificò la sua decisione. Un lettore, in particolare, mi ha chiesto: «Come reagirebbe il governo italiano se un ambasciatore straniero, invitato all'Altare della patria per una solenne ricorrenza, respingesse l'invito?». La risposta è: male, senza dubbio. Ma occorre ricordare, per rendere la situazione più comprensibile, che in Israele l'equivalente dell'Altare della patria e dei tanti monumenti ai morti che esistono in tutte le capitali europee è una grande istituzione museale (in inglese la «Holocaust Martyrs and Heroes Remembrance Authority»), creata nel 1953 per «documentare la storia del popolo ebraico durante il periodo dell'Olocausto, preservare la memoria e la storia individuale dei sei milioni di vittime, diffondere il retaggio dell'Olocausto nelle generazioni future attraverso i suoi archivi, la biblioteca, la scuola, il museo e il riconoscimento dei Giusti fra le Nazioni». Il luogo in cui si celebrano le grandi ricorrenze di Israele, quindi, non è un silenzioso monumento di marmo, ma una istituzione vivente che ha un vivace programma culturale, organizza esposizioni ed esprime, esponendo e commentando i suoi documenti, opinioni e interpretazioni da cui è possibile dissentire.
Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, cliccare sulla e-mail sottostante.