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La Stampa Rassegna Stampa
04.05.2007 "Pace in cambio di territori", se solo Israele volesse...
Igor Man torna a venderci un'illusione ormai morta e sepolta

Testata: La Stampa
Data: 04 maggio 2007
Pagina: 1
Autore: Igor Man
Titolo: «Il Golan e la pace in Iraq»

"Territori in cambio di pace". Nel suo editoriale pubblicato da La STAMPA del 4 maggio 2007 Igor Man ci assicura per l'ennesima volta che la formula magica funzionerebbe, se solo Israele volesse.
L'efficacia della miracolosa pozione è garantita da non meglio precisate "buone fonti ": la Siria avrebbe assicurato agli Usa che  "quando l’altopiano del Golan sarà tornato alla Siria verrà la pace e sarà per sempre".
D'altro canto, nel 1973
"Feisal d’Arabia Saudita"  disse al vecchio cronista "che la chiave della pace c’era: la risoluzione 242. «Nella versione francese, ovviamente»" (ovvero che chiede il ritiro "dai" e non, come nella versione originale inglese "da territori occupati").
Nel frattempo, Israele ha ceduto il Sinai all'Egitto e il presidente egiziano Sadat, che ha firmato la pace, è stato assassinato da un fondamentalista islamico. Israele ha ceduto territtori all'Autorità palestinese, si è ritirata dal Libano, ha sgomberato Gaza, ottenendo in cambio solo sempre più violente offensive terroristiche.
Ha anche provato a trattare con la "pacifica" Siria, che però ha stretto alleanza con l'Iran dell'ideologia genocida di Ahmadinejad e ha continuato ad ospitare a Damasco i dirigenti di Hamas e degli altri gruppi terroristici palestinesi e a far transitare le armi destinate ad Hezbollah.
L'Arabia saudita ha predicato nel mondo fondamentalismo e antisemitismo e oggi lega la "normalizzazione" dei rapporti con Israele al "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi, cioè al suicidio demografico dello Stato ebraico.
Forse Igor Man racconta ormai ai suoi lettori un Medio Oriente immaginario  al quale un tempo si poteva anche credere (benché non sia mai esistito), ma sul quale  oggi  nessuno  dovrebbe più illudersi.
"Pace in cambio di territori" era una formula che poteva sedurre prima di Oslo, del fallimento di Camp David e dell'intifada terrorista che ne seguì. Prima dell'11 settembre, di Ahmadinejad e della constatazione dell'esistenza di una jihad globale diretta non solo contro Israle, ma contro l'intero Occidente.
Oggi può crederci solo ch vuole rimanere volontariamente cieco.

Ecco il testo:

 Missione compiuta»: scandì visibilmente felice il presidente Bush annunciando la «conclusione positiva» della campagna militare contro il terrorismo in Iraq. Quattro anni sono trascorsi da quella euforica proclamazione (il «discorso della portaerei») e la guerra non soltanto continua: c’è il rischio addirittura che si incarognisca facendo della (fallita) missione del presidente Bush l’infausta scintilla che si trasforma in rogo provocando così un «disastroso conflitto regionale». Basterà la enfatizzata conferenza di Sharm el-Sheikh a scongiurare una contagiosa deriva irachena? Vediamo.
Il Primo Maggio, esattamente quattro anni dopo l’annuncio fallace di Bush, il Congresso ha fatto pervenire al Presidente la legge che in pratica sancisce il ritiro delle truppe Usa dall’Iraq. Dabliù Bush ha firmato il veto «con la stilografica avuta dal padre d’un marine caduto combattendo contro il terrorismo», definendo la legge approvata dal Congresso (a maggioranza democratica) una «pericolosa miscela di confusione e caos».

Insomma «la missione continua» per far sì che il sogno della pace in Medio Oriente «finalmente si realizzi».
Un vecchio adagio mediorientale recita: «Senza l’Egitto non si può fare la guerra, senza la Siria non si può fare la pace». Non senza fatica, ostinatamente, il segretario di Stato americano, la Signora Condoleezza Rice, combatte oramai da quattro anni una battaglia politica coraggiosa volta giustappunto a tradurre in realtà quell’adagio mediorientale. Ieri, dopo un primo annuncio semanticamente ambiguo, il portavoce del ministro degli Esteri egiziano Abul Gheit ha infine confermato l’incontro fra il Segretario di Stato americano e il ministro degli Esteri della Siria, Walid al Muallim, incontro durato almeno trenta minuti. Sarebbe incauto esultare ma certamente s’è rotto un tabù.
Buone fonti ci dicono che messi da parte i convenevoli d’uso, l’americana e il siriano abbiano centrato subito il bersaglio grosso: la presenza della Siria a un auspicabile tavolo di pace sul modulo della Conferenza di Madrid, seguita alla prima campagna americana in Iraq, Desert Storm: 1991. A quanto ci è dato sapere, la risposta del siriano all’americana sarebbe stata, in buona sostanza, questa: quando l’altopiano del Golan sarà tornato alla Siria verrà la pace e sarà per sempre. Se le cose stan veramente così, possiamo dire che la Siria abbia esumato (una volta ancora) la risoluzione dell’Onu 242, famosa e controversa: nel testo inglese si legge del ritiro (di Israele) «da» (from) territori occupati, nel testo redatto in francese è detto invece «dai» (des). Nell’aprile del fatale 1973 (l’anno della Guerra del Kippur), a Gedda, quel carismatico sovrano che fu Feisal d’Arabia Saudita mi disse che la chiave della pace c’era: la risoluzione 242. «Nella versione francese, ovviamente». E ieri, in una intervista al Tg1, Mouhsen Bilal, ministro dell’Informazione siriano (studi a Padova, italiano perfetto) ha, sia pure indirettamente, richiamato la 242 dicendo che la pace in Medio Oriente («una pace globale») ci sarà allorché l’altopiano del Golan tornerà alla Siria. La domanda era stata se Damasco fosse disposta a parlar di pace con Israele.
Sempre nell’ambito (come al solito solenne seppur vagamente pacchiano) della Conferenza indetta per assicurare la ricostruzione, domani, e la sopravvivenza, oggi, del martoriato Iraq, la Signora Rice ha avuto «un breve incontro» con il ministro degli Esteri iraniano, il «moderato» Manucher Mottaki. È vero che la politica è l’arte del possibile ma ancorché sia nell’interesse di tutti (dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita, dall’Europa a Israele, alla Cina) che si spegnessero i troppi «focolai di disturbo» che rischiano di massacrare una intera regione – strategica - del mondo, allo «stato degli atti» un cammino di pace rimane più che mai difficile da tracciare. Ad angustiarci non è soltanto il sanguinoso tritacarne iracheno (a proposito: il fiume di dollari del Compact, una sorta di Piano Marshall pro-Baghdad, chi ne eviterà lo straripamento nell’intrallazzo?), anche la crisi politica che attanagli Israele è serio motivo di preoccupazione. Se l’attuale, e contestato primo ministro dovesse cadere e nuove elezioni riportassero al potere qualche leader che considera la guerra un tocca-e-sana, c’è da temere un ineludibile scambio di missili fra Teheran e Gerusalemme. Ma è anche vero che da che mondo è mondo dal grembo insanguinato della guerra è sempre nata la pace. La pletorica Conferenza di Sharm el-Sheikh non risolverà certo la fosca tragedia dell’Iraq, ma qualche segnale positivo lo ha dato. Se son rose fioriranno, ma bisogna far presto poiché la Rosa di Baghdad, l’ariosa città dei due fiumi, ha oramai soltanto pochi petali sul gambo lordo di sangue. Innocente.

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