Riportiamo dal CORRIERE DELLA SERA del 3 maggio 2007 una lettera a Sergio Romano e la risposta
La Nuj, il sindacato della stampa britannica, si è espressa per il boicottaggio economico di Israele per la sua politica verso i palestinesi. Mi chiedo perché una simile presa di posizione sia inconcepibile in Italia. È troppo potente la lobby ebraica in Italia, oppure i giornalisti italiani non sono altrettanto liberi e autonomi come gli inglesi?
Antonio Ferrin
macferrin@tin.it
Caro Ferrin, prima di rispondere alla sua domanda, ricordo i fatti. Nella sua riunione del 13 aprile il sindacato della stampa Britannica (Nuj, National Union of Journalists, circa 40.000 soci) ha votato due mozioni. Nella prima, approvata a larga maggioranza, la Nuj condanna Israele per il «barbaro comportamento (in inglese, savage behaviour) verso i civili palestinesi sulla scia della sconfitta inflitta dagli Hezbollah alle forze israeliane». Nella seconda (approvata da 66 voti contro 54) chiede per le esportazioni israeliane un boicottaggio simile a quello adottato verso il Sud Africa all'epoca dell'apartheid e invita il Trades Union Congress (la federazione dei sindacati britannici) a intervenire presso il governo di Londra affinché adotti sanzioni. Per la cronaca, il congresso ha adottato altre mozioni con cui condanna il campo di Guantanamo (la base cubana dove gli Stati Uniti detengono alcune centinaia di prigionieri), e manifesta il suo sostegno al presidente venezuelano Hugo Chavez. Suppongo che sia chiaro, a questo punto, con quali schemi politici e ideologici la maggioranza degli iscritti al sindacato britannico della stampa giudichi i principali avvenimenti internazionali. Non è questo, tuttavia, il motivo per cui mi auguro che i giornalisti italiani non seguano l'esempio dei loro colleghi al di là della Manica. Le ragioni sostanziali sono due. In primo luogo spero che sia finita l'epoca in cui i sindacati funzionavano da cinghia di trasmissione di un partito o di una ideologia e impiegavano una parte del loro tempo a incrociare le braccia contro regimi «anti democratici» o a boicottare lo scarico di merci provenienti da Paesi sgraditi. Queste forme di lotta politica appartengono alla fase ideologica della storia europea e mi sembrano oggi del tutto anacronistiche. Un sindacato è forte quando lascia la politica ai partiti, non chiede ai suoi soci un impegno politico e ne difende gli interessi cercando di negoziare col datore di lavoro le migliori condizioni possibili. Ciò che maggiormente mi ha sorpreso in questa vicenda britannica è che la condanna di Israele sia avvenuta in un Paese dove Margaret Thatcher e Tony Blair, con stili e metodi alquanto diversi, hanno considerevolmente ridotto l'influenza politica dei sindacati nella vita nazionale. Blair, in particolare, è riuscito a impedire che le Trade Unions condizionassero con i loro voti bloccati l'esito dei congressi del partito. Ma non è riuscito a impedire, a quanto pare, che il mito del sindacato militante resistesse tenacemente proprio là dove è particolarmente inopportuno. È l'inopportunità, per l'appunto, il secondo motivo delle mie critiche. Il maggior problema di un giornalista è quello di affermare la propria indipendenza, garantire al lettore l'affidabilità del proprio lavoro, dimostrare quotidianamente che è perfettamente in grado di separare le proprie opinioni e i propri sentimenti dalla fedele descrizione dei fatti di cui è testimone. So che molti giornalisti non rispondono a questi criteri e che alcuni di essi mettono deliberatamente la loro penna al servizio di un disegno politico. Ma spero che siano una minoranza. E mi chiedo come un sindacato possa prendere posizioni che sono palesemente in contraddizione con l'etica del mestiere che dovrebbe tutelare.
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