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Non dire notte Amos Oz Traduzione di Elena Loewenthal Feltrinelli Euro 15,00 Indifferente, vitreo e senza risposta. Ma anche, grazie a Dio, senza domande. Il deserto è il vero protagonista di Non dire notte, il romanzo di Amos Oz che esce in Italia nella bella traduzione di Elena Loewenthal. Tel Kedar, la cittadina polverosa dove si svolge la storia, è uno scalcinato avamposto nel Negev. Colline desolate, lunghe notti vacue abitate solo da stelle e rari cipressi scolpiti nel basalto fanno da sfondo alle vicende del libro. Ma le ragioni del deserto sono ancor più forti della semplice topografia. L’assenza di conforto da parte del paesaggio dà risalto alla chiave psicologica con cui Oz ha composto questa sua elegia crepuscolare. Un senso di antica tenebra intride l’anima di Theo, che si è lasciato alle spalle una biografia eroica per consumare in questo scenario scabro il suo ingresso nella vecchiaia. "E dove dovremo rifulgere, e a chi serve il nostro fulgore?", recita un verso arenato tra le sabbie del testo. Una scena dopo l’altra, la rinuncia al fulgore dell’illusione viene messa in pratica da Theo con silenziosa caparbia. Essere solo spettatori di una vita che si srotola quasi senza rumore. Non morti ma nemmeno più veramente vivi, solo presenti come testimoni di emozioni che non ci appartengono. Eppure, una forza altrettanto intensa contrasta l’atarassia della voce maschile. E’ la vitalità ingenua e disarmonica di Noa, di quindici anni più giovane e ancora capace di entusiasmi utopici. In ebraico, il titolo del libro – Al taghidi layla – ha una sfumatura che va persa in italiano. Il verbo infatti è al femminile, vale a dire che la richiesta di non parlare dell’oscurità è rivolta ad una donna. E, in effetti, il romanzo può essere letto come un appello alle ragioni del sentimento, impersonate dal mistero della femminilità di Noa. La trama è costruita secondo prospettive che si dissolvono l’una nell’altra. I due partner raccontano, ciascuno a modo proprio, la crisi del loro rapporto, ormai levigato dalla consuetudine, dopo una convivenza che abbraccia i simbolici sette anni. Ciascun evento viene così sdoppiato, come in un dialogo segreto tra gli attori, che si parlano e si spiano, ma molto più spesso s’interpellano reciprocamente nel segreto dell’anima. I due cercano faticosamente, e alla fine trovano, un terreno d’incontro, un compromesso che in qualche modo li salvi. Oz è autore di grande raffinatezza e la sua resa del monologo interiore della giovane Noa è in alcuni punti assai felice. Si ha però l’impressione che il profilo di questa donna disinibita e combattiva, ma allo stesso tempo vulnerabile, serva soprattutto a dare contorno e profondità all’immaginario maschile di Theo. C’è infatti un piano più intimo del romanzo, in cui sembra riflettersi qualcosa della parabola culturale di Oz stesso e dell’Israele che egli rappresenta: è lo sfrangiarsi del tessuto sociale a cui si accompagna una perdita di senso. "Guerre, retorica, avidità, inframmezzate soltanto …..dalla solita matassa sudata di destino, arroganza e disperazione", con queste parole OZ evoca lo spettro negativo di Tel Aviv, da cui Theo fugge verso il deserto. Non è certo un’immagine lusinghiera, né nel libro è dato trovare una redenzione collettiva. Se c’è un riscatto è quello della complicità minimale delle biografie e ancor di più della possibilità di catturare in letteratura le tracce sensibili del vissuto. Si potrebbe dire che Oz usi il talento dello scrittore in maniera simile a quello della guida beduina incontrata in giovinezza da Theo, un tipo dal viso "nero e scavato come cenere di un falò nomade ormai spento", e che era capace di "leggere le impronte persino là dov’era tutta roccia". E’ in maniera simile che questo libro scopre le orme della passione anche nelle pieghe del disinganno. Giulio Busi Il Sole 24 ore |
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