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Il pogrom Adam Michnik a cura di Francesco M. Cataluccio Bollati Boringhieri Euro 7,00 Davvero un bel privilegio! Dal 1535, per graziosa concessione di re Sigismondo I, gli abitanti di Kielce avevano il diritto d’impedire agli ebrei l’ingresso in città. La cittadina ospitava un vescovo, era ricca di molte chiese, e in parecchi pensavano che la presenza di ebrei ne avrebbe in qualche modo contaminato il valore simbolico per il cattolicesimo polacco. Del resto, oltre a "benefici religiosi", una simile concessione portava con sé vantaggi economici. Per i commercianti del luogo, non avere ebrei entro le mura significava infatti liberarsi da pericolosi concorrenti. Solo nell’Ottocento gli ebrei vennero ammessi in Kielce e, pur tra i mugugni, contribuirono non poco allo sviluppo urbanistico e finanziario. Così la popolazione giudaica passò dal centinaio di anime del 1852 alle oltre diecimila d’inizio Novecento, e fino alle 25mila del 1939. Quando i tedeschi entrarono in città, il 4 settembre di quell’anno, Kielce era ormai un centro considerevole di vita e cultura giudaica. Tuttavia il terrore nazista, poi il ghetto, istituito nel 1941, e infine la deportazione in massa resero Kielce nel 1944 ufficialmente judenrein, "ripulita dagli ebrei". Ma ecco che, alla fine del conflitto, uno sparuto manipolo di sopravvissuti ritorna in città. Sono scampati dai lager, oppure sfollati che rientrano dall’Unione Sovietica. Circa duecento persone, ancora sbigottite e incerte sul proprio futuro. Non sono benvenute né, del resto, è quello un momento tranquillo per la Polonia. Mentre l’ingerenza sovietica si fa sempre più pesante, gli ebrei vengono quasi sempre identificati tout court con il Partito comunista e considerati nemici naturali della patria polacca in pericolo. Il 4 luglio 1946 il rancore represso sfocia nel più grave pogrom europeo dell’era post-nazista. La folla, fiancheggiata da poliziotti e militari, prende d’assalto il caseggiato in cui si concentrano decine di famiglie ebraiche. Alla fine di un drammatico crescendo di violenze, che dura un giorno intero, si contano tra gli ebrei una quarantina di morti, e almeno altrettanti feriti gravi. Solo con molto ritardo il Governo reagisce, esautorando l’esercito di stanza in città e facendo affluire truppe da tutta la Polonia. Dopo un processo affrettato, un centinaio di persone vengono arrestate e nove condannate a morte. Lo storico Adam Michnik, voce del dissenso polacco tra il 1968 e il 1989, ripercorre in pagine accorate l’atteggiamento dell’opinione pubblica, e in particolare della Chiesa cattolica, di fronte al massacro. Da una parte c’è la relazione che Kaczmarek, vescovo di Kielce, trasmise all’ambasciatore degli Stati Uniti a Varsavia, con l’intento di sminuire, e in certo modo giustificare, le violenze. Dall’altra le parole coraggiose di un altro vescovo, Teodor Kubina, che scrisse a chiare lettere come il pogrom avesse aggiunto orrore, provocando lo sterminio di chi era appena sopravissuto "all’inferno dell’occupazione tedesca". E’ un fatto che la voce di Kubina rimase isolata e anzi venne criticata dal Consiglio episcopale polacco. La Chiesa, in gravi difficoltà nello scontro con i comunisti, volle considerare l’eccidio come una reazione popolare eccessiva alle provocazioni dei marxisti o addirittura degli stessi ebrei. Michnik sembra ritenere che i fatti di Kielce appartengano a una guerra tra polacchi e comunisti, di cui gli ebrei furono vittime. Eppure, una simile spiegazione non basta a rendere veramente ragione del pogrom, che affonda le proprie radici in un secolare antigiudaismo. In seguito a questo evento, oltre centomila ebrei lasciarono definitivamente la Polonia, una ferita che si sta rimarginando solo ora, pur con lentezza. Giulio Busi Il Sole 24 Ore |
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