"Viva Vidal Naquet che ha protestato contro la legge francese del 2005 che impone a tutti gli insegnanti di valorizzare il ruolo "positivo" del colonialismo francese nel Nord Africa": così, dopo aver appreso dall’ultimo intervento di un collega giurista di questa infame norma della Francia laica e repubblicana – che nega per legge i crimini del colonialismo francese in Algeria - ho concluso il convegno del Master Enrico Mattei in Medio Oriente "La storia imbavagliata", che sul Corriere di oggi, leggo invece essere, per i rappresentanti della Comunità ebraica italiana, un "convegno negazionista". Ovviamente non è così, sia perché lo stesso giornalista riferisce che al convegno "hanno partecipato studiosi di tutte le scuole e gli orientamenti", sia perché il sottoscritto non è mai stato un "negazionista" (se non altro perché non si è mai occupato sistematicamente di "olocausto", anche se adesso è giunta probabilmente l’ora di farlo), sia perché il negazionismo in pratica non esiste, tanto da non essere neppure citato fra le voci del Dizionario di Storiografia di Bruno Mondadori: ci sono più semplicemente alcuni storici che negano uno o più tasselli della versione "ufficiale" dello sterminio degli Ebrei nella II guerra mondiale – dalle camere a gas alle cifre del massacro – e che per questo, per questa legittima critica alla lettura di un evento storico trasformato dai mass media in un dogma religioso intoccabile, vengono bollati e perseguitati persino in sede giudiziaria. Non se ne deve discutere? Non si può relazionare e discutere in un’aula universitaria delle libertà negate (Ainis), delle leggi "antinegazioniste" (Manetti) a tutto campo (ebrei, armeni, anticomunisti, magnifiche sorti e progressive del colonialismo francese, e chi più ne ha più ne metta), dei rischi del cosiddetto "perfezionamento del sistema liberale" che a forza di paletti e precisazioni viene ucciso (Mellini), del totalitarismo giudiziario indotto dal mandato di cattura europeo o da altre norme internazionali (Sinagra, Bargiacchi)? Non si può ricordare il principio costituzionale della libertà di insegnamento oggi a rischio – per tutti - nel nostro paese (Rolli, Zucco), o la barbarie del caso Toaff (Barbero, D’Orsi, Israel Shamir)? Non si possono e devono affrontare i contenuti specifici della storiografia e della politologia che più di altri fanno scoppiare il "caso" sui mass media e nei Tribunali (Losurdo, Marino, Paciello, Copertino), o discutere del modo in cui in Medio Oriente (Strika, Al Qaryouti) e in Occidente (Irace, Manno) si parla, in modo più o meno critico o più o meno ossessivo, dell’Olocausto? Non si possono e devono affrontare i contenuti specifici della storiografia e della politologia che più di altri fanno scoppiare il "caso" sui mass media e nei Tribunali (Losurdo, Marino, Paciello, Copertino), o
Né si deve parlare dell’uso strumentale che del dramma degli ebrei nella II guerra mondiale fa Israele, il paese che ha violato più risoluzioni dell’ONU di qualsiasi altro stato al mondo, e che – forte della propria immagine di eterna vittima - continua ad occupare illegalmente territori palestinesi e siriani che non gli appartengono?
E infine: a tutto questo non si può e non si deve accompagnare – come utile ed anzi necessario strumento didattico – l’ascolto in un’aula universitaria della voce di un ex professore della Sorbona, di cui tutti cianciano per linciarlo o prenderne le distanze ma nessuno sa un tubo? Un professore educato, preciso e consequenziale nell’esposizione, che risponde al nome di Robert Faurisson, che ha 72 anni, e che da 26 anni (ven-ti-sei) passa da un tribunale all’altro solo perché dice e argomenta che le camere a gas non sono mai esistite?
E perché no? Perché - data per scontata da parte di tutti la risposta affermativa alla prima serie di domande – anche quest’ultimo interrogativo non dovrebbe vedere una società e uno stato democratico rispondere un sì convinto, indipendentemente dall’accettare o meno le tesi proposte dal professor Faurisson? Perché una breve videointervista di 30 minuti a un cosiddetto "negazionista" (che respinge, basta ascoltarlo, questo "titolo" demonizzante a lui affibbiato), dovrebbe trasformare le 18 ore di un convegno di non "negazionisti" che affrontano il problema della libertà di parola per i "negazionisti", in un "convegno negazionista"?
Mistero. O meglio, fatto ben spiegabile. Il motivo di tutto questo, e delle preoccupazioni espresse dal presidente della comunità ebraica italiana Renzo Gattegna sta essenzialmente nella paura che la minilezione del professor Faurisson – fatte salve le normali critiche su questo o quell’ aspetto del suo discorso – possa fare scuola, possa cioè far dubitare del dogma religioso dell’Olocausto. La paura cioè, del libero pensiero, dell’ennesimo "cattivo maestro" da far tacere con il linciaggio e la minaccia.
Vorrei tranquillizzare, anche se vedo l’impresa difficile, Renzo Gattegna. Innanzitutto dicendogli che come docente dell’Ateneo lo ringrazio delle opportune e generose parole nei confronti della mia Università, la quale è una "prestigiosa istituzione culturale" anche perché è rispettosa della libertà di insegnamento. A Giurisprudenza di Teramo si svolse anni fa una interessantissima conferenza sulla pecora Dolly, di un ricercatore inglese, che senz’altro poté suscitare preoccupazione in qualche autorità cattolica del nostro paese. Io ero e sono d’accordo con quella iniziativa, nonostante possa essere sembrata una sfida alla morale cattolica storicamente egemone in Italia. Analogamente, penso che un consimile criterio possa e debba essere adottato nei confronti delle discipline umanistiche e delle tematiche storiografiche tutte, ivi comprese quelle che potrebbero urtare la sensibilità della minoranza ebraica del nostro paese.
Laicità e pluralismo insomma, e non irritante laicismo a senso unico. Alla luce di questo principio, rivolgo a Renzo Gattegna un invito a svolgere una sua conferenza al master Enrico Mattei in Medio Oriente, come ho già fatto con successo (nel senso che è venuto a Teramo) con Vittorio Dan Segre, e come ho tentato di fare – senza successo – con Valentina Pisanty, autrice de "L’irritante questione delle camere a gas", con Marcello Pezzetti, e con lo stesso ambasciatore d’Israele che in un primo tempo aveva fissato al 15 marzo scorso la data della sua conferenza, e poi ha declinato per altri impegni l’invito. Il motto del master è infatti "liberi di insegnare, liberi di imparare", ed è mia ferma intenzione dar voce a tutte le tendenze e opinioni, anche e soprattutto sulle questioni più scottanti.
Detto questo, il problema di fondo che sottende l’articolo del Corriere della Sera, è il clima di falsità, demonizzazione, e violenza che circonda quasi sempre nel nostro paese le libere iniziative culturali, accademiche e ovviamente politiche non bene accette dalla potentissima e spesso arrogante comunità ebraica italiana: l’ "avvertimento" rivolto al collega Ainis dalla comunità ebraica, e da questi denunciato, è un dejavu che conoscono tutti gli intellettuali e giornalisti italiani che trattano direttamente o indirettamente di Israele, e che personalmente conosco da un quarto di secolo (anno 1982: un innocente commento su Paese sera in cui citavo una frase di Luciano Lama, che tuttora condivido: "Ebrei, uscite dal ghetto!"), quasi in ogni passo della mia vita professionale e persino privata. La quale tuttavia, alla faccia, ha continuato a marciare in avanti.
E’ accaduto così che un convegno che per la sua novità, il suo tempismo, e per le personalità coinvolte, meritava e meriterebbe ben altra attenzione da parte della grande stampa nazionale – e tanto ciò è vero che stavano per uscire, o sono stati proposti, servizi di presentazione su La stampa, su Libero, e persino sul Corriere della sera – ha avuto come presentazione al grande pubblico soltanto il "grido di allarme" di Renzo Gattegna, in un articolo che peraltro contiene una inesattezza ed un punto oscuro. L’inesattezza è che non è affatto vero che Claudio Moffa è stato "allontanato nel 1995 da Rifondazione comunista" – si tratta di immondizia blog già smentita e che stranamente un quotidiano professionale come il Corriere riporta senza verificarla alla fonte – perché Moffa era all’epoca già uscito da più di un anno dal partito di Bertinotti e Cossutta, e anzi si riscrisse il giorno dopo quella voce calunniosa diffusa dalla comunità romana sulla stampa, a Rifondazione comunista di Teramo, senza che nessuno nel partito sollevasse problemi. Il punto oscuro è il presunto divieto di ingresso in Italia subito in passato da Faurisson, che se vero sarebbe comunque un fatto gravissimo: ma appunto, è vero? O si tratta di una richiesta al governo italiano di proibire al professor Faurisson di venire a fare qualche conferenza in Italia? Se sì, non sarebbe questa una violazione delle norme europee sulla libera circolazione di persone e idee, e della stessa Costituzione italiana che difende all’articolo 33 la libertà di insegnamento , e all’art. 21 la libertà di pensiero "con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione"?
Claudio Moffa
Roma 21 aprile 2007