Famiglia Cristiana nel numero 17 pubblica un articolo di Emanuele Giordana intitolato "Il buio oltre Kabul".
E’ un viaggio attraverso l’Afghanistan nelle zone dove la ricostruzione si rivela più lenta e difficoltosa. Anche nella capitale i soldi degli aiuti non sono sufficienti. Ma al Nord e nel Sud la situazione è grave: niente acqua, niente elettricità, solamente malcontento. Meno male che gli italiani sono presenti a Baghlan...
Sul pennone svetta la bandiera italiana e fa un certo effetto qui, nell’Afghanistan profondo, vedere il tricolore sul tetto dell’ospedale provinciale di Baghlan. Fa ancora più effetto sapere che è stata la direzione di questo nosocomio, una delle strutture più importanti per la sanità pubblica della provincia, a voler mettere lo stendardo del "Paese amico".
Il direttore sanitario ci propone il giro di rito: qui i laboratori, di là la sala d’attesa; subito fuori la morgue, che la cooperazione italiana ha appena promesso, sarà la prossima opera da realizzare.
Accompagnati dal dottor Arif Oryakhail, che da rifugiato nel nostro Paese si è trasformato adesso in responsabile della cooperazione sanitaria italiana in queste aree, seguiamo il direttore dell’ospedale tra pavimenti tirati a lucido e ossequiosi infermieri. Ma la sorpresa deve ancora arrivare. Fin qui vediamo un centro ben ricostruito e ben attrezzato. Facile, viene da dire, quando ci sono i soldi che vengono dall’estero. Adesso magari, davanti a un tabellone luminoso, ci spiegheranno anche la curva crescente dei ricoveri...
Ma nella sala riunioni, ad aspettarci, c’è tutt’altra atmosfera. Una ventina di capi villaggio con il volto incorniciato dai lunghi turbanti, le barbe curatissime, i lunghi mantelli colorati a significare che sono venuti a una riunione importante. L’occasione è il gruppo di giornalisti italiani che visita l’ospedale. E dunque è il momento di far sapere cosa ne pensano e, perché no, avanzare altre richieste. Che subito arrivano. Ci vuole un nuovo frigorifero – dicono – e aumenti per il personale infermieristico. Ma anche borse di studio per andare a studiare in Italia e corsi di formazione professionali per i paramedici.
Hanno le idee chiare questi signori che sembrano i protagonisti di un medioevo contadino, nei loro mantelli che ricordano l’antica epoca delle guerre anglo-afghane. Invece, vivono ben piantati nel presente, ci vedono chiaro e arrivano subito al nocciolo.
Ma ci ringraziano anche: "Quest’ospedale è l’unica cosa che è stata fatta qui dalla comunità internazionale".
"Grazie, Italian", dice uno di loro, forse il più anziano, "per noi siete fratelli. Non dimenticheremo". Ma c’è di più. C’è una fierezza tipicamente afghana che non fa sconti: "Vi siamo grati, ma non vogliamo elemosine. Siamo pronti a sfidare la comunità internazionale. Dateci sementi ed elettricità e noi in tre anni faremo rinascere il Paese".
La riunione si conclude con una fotografia di gruppo e molte strette di mano. E con la precisa sensazione che, per i prossimi cinquant’anni, un italiano che passi da Baghlan problemi non ne avrà proprio. Ti senti protetto in un Paese dove di solito, quando passeggi, spii sempre con la coda dell’occhio l’angolo della piazza. O nel retrovisore le auto che sopraggiungono.
A qualche chilometro da Baghlan, lungo la strada per Kabul, si vedono i tralicci in costruzione che sono la promessa dell’arrivo dell’elettricità in questo Paese che va avanti a candele e lampade a kerosene. Entro l’anno, spiega Arif, la corrente elettrica che viene dal Tagikistan sarà a Kabul.
Ma nelle campagne? Benché nel Nord del Paese, dove la guerra è lontana e le ferite di 25 anni di conflitto si vanno rimarginando, qualche segnale dell’intervento della comunità internazionale si veda, gli afghani puntualizzano. È poco, dicono. Troppo poco.
E se qui è poco, se nel Nord mancano i pozzi e la luce, nel Sud del Paese è ancora peggio. A Sud, all’assenza di intervento umanitario e di ricostruzione, si sommano i bombardamenti che stanno facendo perdere, soprattutto agli americani ma anche alla Nato, il consenso guadagnato nel 2001 con la cacciata dei talebani. Ma anche a Baghlan, a parte l’ospedale, che certo è molto, non si vede nulla. Eppure, se si fosse investito di più, il consenso, almeno nelle regioni del Nord, sarebbe cosa fatta.
Invece, la solidarietà funziona a macchia di leopardo, privilegia alcuni e lascia fuori altri. Se c’è l’ospedale manca la strada, se arriva l’acqua non si vedono condutture, se ci sono i dottori scarseggiano le medicine. Il Governo è quasi assente e la macchina dello Stato è lenta e corrotta. Quanto ai donatori, la spesa militare è nove volte quella per la ricostruzione. Un prezzo che non pagano solo gli afghani. In termini di consenso, lo paghiamo anche noi. Appena c’è qualcosa che funziona – un pozzo, una scuola, un centro di salute –, la reazione è immediata. Il vuoto, invece, produce prima depressione e poi rabbia.
Paradossalmente, la comunità internazionale è stata con l’Afghanistan assai meno generosa che con altri Paesi. Spiega un dossier del Cespi (Centro studi politica internazionale) che gli afghani si sono visti in media attribuire in aiuti 66 dollari per abitante, contro i 219 della Palestina, i 249 della Bosnia e i 256 di Timor Est. A Londra, l’anno scorso, le promesse per raddrizzare le cose non sono mancate: la cosiddetta iniziativa Afghanistan Compact, lanciata nel gennaio 2006, prevede infatti che, entro la fine del 2010, l’elettricità raggiunga almeno il 65 per cento delle famiglie e il 90 per cento degli uffici nelle aree urbane. Il 25 per cento in quelle rurali. La metà degli abitanti di Kabul e il 30 per cento nelle maggiori città dovrebbero avere accesso alla rete idrica, mentre i municipi saranno in grado di gestire lo sviluppo urbano "garantendo che i servizi siano effettivamente assicurati efficientemente e in modo trasparente".
Possibile? Una visita al municipio di Kabul ridimensiona le attese. L’ingegner Rohullah Aman, che è sindaco da tre mesi, allarga le braccia. Spiega che la città, ormai cresciuta a dismisura, ospita circa il 25 per cento della popolazione urbana del Paese, "ma noi riceviamo introiti ben inferiori a questa percentuale". Trenta milioni di dollari di tasse per il 2006 e forse 50 per il 2007.
Poco. Ricostruire il manto stradale della capitale, il primo biglietto da visita per chi arriva in città e il servizio minimo per chi ci abita, costerebbe 23 milioni di dollari. Ma il Municipio ne ha sì e no tre da spendere in questo settore, altrimenti prosciugherebbe il bilancio. In altre parole, ci vorrebbero otto anni per rifare le strade di Kabul, dove la polvere alzata dal vento intossica come i tubi di scarico. Si può aspettare tanto?
In molti casi alla mancata ricostruzione, allo scarso impegno umanitario, ai ristretti investimenti civili si risponde con una sola parola: "sicurezza". Senza sicurezza, ripetono i donatori, non si può ricostruire. Una mezza verità. A Kabul, una città che è ormai un’enorme caserma, ricostruire le strade non richiede grandi investimenti in sicurezza. Solo bitumatrici e badili.
Quanto al resto del Paese, escludendo le aree conflittuali del Sud, l’ossessione sicurezza rischia di essere un falso problema. Con le dovute accortezze, e soprattutto col metodo del coinvolgimento delle comunità locali – com’è nel caso dell’ospedale di Baghlan – non c’è bisogno di scorta armata. Anzi.
Ricostruzione significa lavoro per gli afghani e richiede solo saltuariamente operatori internazionali. Meglio se come il dottor Arif Oryakhail, nato e cresciuto in Afghanistan ma cittadino italiano. Parla la lingua, capisce al volo, è apprezzato. E gira senza scorta. La sensazione è che i capi villaggio e la gente di Baghlan farebbero quadrato per difenderlo. Senza bisogno di cingolati.
L'idea di Giordana che quella della sicurezza sia un' "ossessione" e l'implicito suggerimento che si dovrebbe spendere di più per la ricostruzione che per le attività militari ci lascia dubbiosi.
Di fatto, l'Afghanistan è ancora un paese in guerra, e abbiamo constatato che nella strategia dei terroristi rientrano il rapimento degli stranieri e gli attacchi alle infrastrutture.
A noi sembra davvero che il nesso tra ricostruzione e ristabilimento della sicurezza non possa essere trascurato.
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