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Il Foglio Rassegna Stampa
26.04.2007 Una guerra giusta, resa orfana dal rimorso americano
Fouad Ajami spiega perché la guerra in Iraq può essere vinta

Testata: Il Foglio
Data: 26 aprile 2007
Pagina: 1
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «La guerra orfana si può vincere»

Dal FOGLIO del 26 aprile 2007:

Il giorno in cui venisse fatto un film sulla seconda guerra del Golfo, dovrebbe trovarvi posto Fouad Ajami. Come decano degli studi mediorientali della Johns Hopkins University, Ajami è il più celebre e controverso arabista degli Stati Uniti. Gli studiosi vicini ai Democratici lo accusano di aver venduto alla Casa Bianca i segreti del mondo arabo. The Nation lo chiama “informatore nativo”. Nato nel villaggio libanese di Arnoun, lo sciita Ajami una settimana fa, di ritorno dall’Iraq, ha incontrato Bush alla Casa Bianca. Primo arabo a vincere il premio McArthur, Ajami è uno dei pochi americani ad aver incontrato Ali al Sistani, Moqtada al Sadr e Bush. Il suo rapporto col potere emerge dal libro “The foreigner’s gift”. Intervistato dal Foglio, lo storico lawrenciano sintetizza così il dibattito sull’Iraq: “Cauto ottimismo a Baghdad, disperazione a Washington. Ci sono la luce e le tenebre, le promesse della libertà e la paura del caos. E’ una guerra giusta, ma il rimorso americano l’ha lasciata orfana. Non è la guerra di Paul Wolfowitz. Fu sancita dal Congresso e combattuta all’ombra dell’11 settembre. Oggi i Democratici si rimangiano quel voto. Combattiamo sotto gli occhi del mondo arabo. Dobbiamo finire il lavoro. Il 23 ottobre 1983 una Mercedes imbottita di tritolo uccise 241 marine. L’America lasciò Beirut, dando l’impressione di quanto fosse facile scoraggiarla. Oggi quelle Mercedes sono usate a Baghdad”. La sua visione è condizionata dalle immagini di chi lo ha accompagnato in Iraq. “L’insorgenza è la rabbia contro chi ha dato il potere ai figliastri del mondo arabo: sciiti e curdi. E’ il senso di una violazione che va dal triangolo sunnita alle enclave islamiche dell’Europa occidentale”. Abbiamo aperto un vaso di Pandora. “All’ombra delle palme della Mesopotamia, una spedizione americana ha cercato di portare ordine in una terra frantumata. Una sorta di speranza è stata data agli iracheni, l’impazienza di liberarsi della cultura di terrore, statue e informatori. Quella speranza era in mostra quando sono andati alle urne. Quegli uomini e donne portarono con sé la memoria dei padri, delle madri e dei figli uccisi da Saddam. Il loro voto era la loro vendetta. In Iraq avevo guardie del corpo e auto blindate, ma è diffuso un tremendo senso dell’ottimismo. Il sunnita Saleh Mutlak mi ha detto: ‘Abbiamo cuore e coraggio, sappiamo come governare’. Eravamo nella caffetteria della Zona verde e un’intera storia – gli arabi della penisola che conquistavano l’Iraq nel VII secolo, la lunga guerra fra ottomani e persiani e il panarabismo – si trovava dietro di noi. La presenza americana è vittima del proprio successo”. Nancy Pelosi definisce l’Iraq “una situazione da gestire”. “Nessuno sapeva cosa succedeva con Saddam. Sia per i proponenti che per gli oppositori, l’invasione era un salto nel vuoto. Fu solo dopo la liberazione che che gli arabi scoprirono le centinaia di fosse comuni. Nessuno sapeva se gli iracheni avrebbero combattuto per il despota o per i liberatori. La coalizione non stava abbattendo un uomo, ma una setta di dominatori. I soldati stranieri che tirarono giù le statue di Saddam penetrarono uno scisma antico quanto l’islam. Abbiamo abbattuto un edificio materiale e morale vecchio di secoli. Una terribile condizione affligge gli arabi, Abu Mussab al Zarqawi l’ha mostrata in modo letale. Saddam non era disceso dal cielo, era un pezzo di storia araba. Come non è stata una banda isolata di giovani arabi a scendere sull’America l’11 settembre. Quei diciannove ermersero dalla cultura araba dominante”. L’Arabia era terra incognita. “L’America era sul terreno da decenni, ma senza conoscere veramente la società araba. Non ha mai avuto un palazzo imperiale che la rappresentasse degnamente nel mondo arabo. Sapeva pochissimo dell’Iraq. I militari erano ben posizionati sul campo, ma le porte della cultura erano virtualmente chiuse. L’edificio degli ‘arabisti’ alla Cia e al Dipartimento di stato, una certa deferenza verso l’ortodossia sunnita, non è collassato”. Sarà un nobile successo o un nobile fallimento. “L’ho sempre sentita vicina questa guerra per redimere il mondo arabo. Ogni volta che torno da Baghdad alla Casa Bianca sono sempre curiosi di sentire il mio racconto. Lasciando l’Iraq divento impaziente di tornare. Mi mancano gli amici, dal generale David Petraeus ad Ahmed Chalabi. Ho trascorso molto tempo con il premier Nouri al Maliki. Il presidente Jalal Talabani ha sempre porte aperte per me”. Ajami registra un cambiamento sunnita. “Capiscono che farebbero un errore storico se restassero fuori, come fecero gli sciiti negli anni Venti. Stanno scendendo dalla collina per entrare in città. Lentamente hanno capito che l’insorgenza non può vincere. La brutale realtà settaria mi è stata spiegata da un tecnocrate iracheno: ‘Noi costruiamo, loro distruggono’. Un iracheno mi ha detto: ‘L’Iraq è un cimitero di sogni’. Quando cadde Bassora e la popolazione si riversò nelle strade dalla gioia, la folla capì che la resistenza sarebbe stata scritta a Baghdad. Ora i sunniti hanno capito di aver perso la guerra per Baghdad. Se parli con i loro leader ti dicono questo. Il loro orientamento per il ritiro degli americani è sostituito dal desiderio di vederli restare. E’ un cambio monumentale”. Qualche sera prima di lasciare l’Iraq, Ajami era a cena da Maliki. “Gli ho chiesto: ‘Quanti sunniti hai nel governo?’. Ha risposto: ‘Non so, so solo di molti ministri’. E’ questo l’Iraq. Nessuno sciita, non Maliki, Chalabi, Jaafari o Sistani ha mai detto di essere loro nemico. Nessuno ha mai pensato di poter governare senza i sunniti, hanno bisogno di loro. Ora sta a loro decidere. Per un millennio lo sciismo arabo non ha governato e Saddam ha persianizzato gli sciiti dell’Iraq. Sui muri di Baghdad comparve un graffito: ‘Meglio migliaia di americani di un solo tikriti’. I jihadisti combattono per una minoranza, ma anche per una ‘verità’ sunnita. ‘Gli americani ci hanno portato l’ajam’, ha detto un sunnita. Ajam significa ‘non arabo’. Gli sciiti hanno il temperamento dell’oppositore. Sono stati i figli dei chierici di Najaf ad aver fondato il Partito comunista. Le abitudini al comando, le vie dell’ordine, erano aliene agli sciiti. I loro leader erano outsider. Erano secoli che i sunniti non avevano paura degli arabi sciiti. Da Zarqawi al sunnita di strada, i sunniti temono l’emancipazione sciita”. Ajami non nasconde la malinconia. “Puoi rifornire scuole e cancellare graffiti del vecchio regime, abbattere statue del dittatore e riaprire università, costruire un giardino a Kirkuk per bambini, ma sarai sempre uno straniero. Venendo e partendo dall’Iraq, ho visitato molte basi all’alba e al tramonto. Il loro isolamento in un deserto immenso mi parla della solitudine di questo potere lontano che ha allungato i suoi tentacoli in una terra straniera. Nessun ‘orientalista’ avrebbe potuto preparare il personale civile e militare alla desolazione che avrebbero trovato in Iraq. Ai militari è stato spiegato, quando ti offrono il caffè, di prenderlo con la destra e mai con la sinistra. Ma non è un posto che svela i suoi segreti agli stranieri. Petraeus bacia sulle guance gli interlocutori all’araba, dice che sarà sempre un ‘mosulawi’. Ma il viaggio nel ‘cuore del medio oriente’ si è trasformato in un’avventura nelle malignità arabe. Con la guerra il centro di gravità arabo è passato dal Mediterraneo al Golfo Persico”. Ajami è una miniera di incontri. “La maggioranza di iracheni considera questa guerra come una liberazione. Una donna mi ha detto: ‘Sotto Saddam vivevamo in una prigione. Oggi viviamo in un deserto. Io preferisco il deserto’. C’è un presidente curdo che è uno degli uomini più solari della storia del medio oriente. Il premier è un figlio umile dell’Iraq. Maliki è un primo ministro che non parla inglese. I capi del Dawa dicono che Maliki non li ascolta più, sa di essere il primo ministro di tutto l’Iraq. Il vicepresidente Abdel Mahdi è un aristocratico sciita. L’altro vicepresidente. Tareq al Hashemi è sunnita. Pensa ai ministri degli Esteri della Lega araba e a quello iracheno, Hoshyar Zebari. Capirai cos’è l’Iraq. E’ uno stato multisettario che nessun politico può dire di controllare. Vai al Cairo a Riad o Amman, sai tutto della grande famiglia, del fratello o della figlia del padrone”. I paesi arabi non aprono ambasciate a Baghdad. “Non è per la sicurezza come dicono, sono codardi. Zarqawi ha calpestato la loro sicurezza quando uccise un ambasciatore egiziano. Prendi Amr Mussa, il segretario della Lega araba, un radicale sunnita, o l’algerino Lakhdar Brahimi. Loro dicono: ‘Non abbiamo niente a che fare con l’islam sunnita’. They do, they do! Un amico, il viceministro Barham Salih, nella sua casa nella Zona verde mi ha detto: ‘Abbiamo dato una chance alla libertà’. L’insorgenza sunnita riguarda questo. Per capire l’Iraq bisogna volare da Damasco verso Baghdad. Un amico sciita di Baghdad mi ha detto: ‘Ho vissuto vent’anni a Teheran e non parlo una parola di farsi’. L’Iraq non è l’Iran. Amo il nazionalismo iracheno, che è tipicamente sciita. In Iraq c’è anche molto ‘susci’, sunniti sposati a sciiti”. Ogni volta Ajami visita il Parlamento, colpito due settimane fa da al Qaida. “Baghdad contiene la promessa di un futuro. Arabia Saudita, Egitto, Giordania l’hanno resa difficile. I sauditi, gli egiziani e i giordani non fanno segreto dei loro incubi di un Iraq governato dagli sciiti, liberato e in pace con la pax americana. Per i jihadisti gli sciiti, i ‘rafida’, hanno spalancato le porte della città agli invasori. Tutto in Iraq concorre all’apocalittica visione islamista. I ‘secessionisti’ del mondo islamico sarebbero risorti con gli ‘infedeli’, questa visione della storia ce l’ha data la caduta di Baghdad ai mongoli nel 1258. Fu la fine del califfato abbaside. Nel XIII secolo sarebbe stato un ministro sciita, Ibn al Alqami, ad aprire le porte ai mongoli. Nella leggenda i libri furono gettati nel Tigri e migliaia di abitanti passati per la spada. Zarqawi bolla il governo come ‘i discendenti di Alqami’. Zarqawi conosceva il simbolismo e il suo appeal oscuro sugli arabi sunniti. Durante la guerra le tv parlarono dei ‘nuovi mongoli’. Lo sceicco sunnita Yusuf al Qaradawi chiede: ‘Qual è la differenza fra Bush e il re mongolo Hülegü?’. Intellettuali proclamarono che il mondo arabo era stato ricolonizzato. Il 28 febbraio 2005, un avvocato giordano di trentacinque anni si è fatto esplodere a Hilla, uccidendo 130 persone. Raad al Banna, il suo nome, aveva vissuto nella California del sud. La città giordana di Salt, è orgogliosa dei suoi ‘martiri’ uccisi in Iraq. Che in Iraq ci sia una maggioranza araba sciita al potere cambia tutto. L’islam è arabo in modo intimo, il Corano è in arabo, si prega in arabo, il Profeta era un arabo. Per il sunnita di Fallujah l’islam è tale solo se non persianizzato”. In Iraq ci furono celebrazioni quando i figli di Saddam furono uccisi nel 2003. “Ad Amman, regno nell’orbita americana, ci furono ‘majalis taziyah’, preghiere del mattino per i ‘martiri’. L’attacco alla moschea di Samarra fu condotto da jihadisti tunisini. Cosa hanno a che fare con l’Iraq dei tunisini? Sono arabi che vivono in uno stato poliziesco. La guerra di liberazione ha cambiato le regole delle regione mostrando il ‘falso mondo’ degli arabi. Nella prima campagna elettorale, il sindaco di Baghdad disse: ‘I dominatori della regione sono nervosi, i popoli sono invidiosi’. A Baghdad, fra il 2003 e il 2005, è stato realizzato un esperimento panarabo. Quando le forze d’occupazione formarono un consiglio con sciiti, curdi, sunniti, caldei e turcomanni c’erano arabi che dicevano che quel consiglio era senza rappresentanza”. E’ stato un errore occupare gli ex palazzi di Saddam. “E’ come se l’Iraq fosse passato dal dominio del tiranno a quello degli stranieri. Io non alloggio nella Zona verde, sono ospite di Chalabi. Non ne sopporto l’isolamento. Gli iracheni hanno avuto la sensazione che questa non fosse anche la loro storia, la subiscono. La Zona verde ha dato il senso di colonia aliena. L’acqua proviene da Kuwait e Turchia, lo staff della caffetteria è indiano e la carta igienica arriva dagli Emirati. I leader si muovono su elicotteri americani. Hassan al Alawi scrive che i jihadisti hanno i ‘prati verdi del Paradiso’, i leader sunniti hanno la Zona verde. Gli stessi proconsoli americani erano diversi da quelli del 1945. Si sono portati in Iraq il relativismo. Paul Bremer non ha mai mostrato entusiasmo per il suo ruolo”. Non era un mistero che i jihadisti avrebbero teso la mano al regime. “Nell’agosto 2003 circolò la notizia che tremila sauditi erano ‘scomparsi’. Oggi al Qaida è per la maggior parte composta da iracheni. E’ triste dirlo. Ma gli attentatori sono quasi sempre stranieri. Un iracheno mi ha detto che in Iraq chiedere un attentatore è come ordinare pizza. Arrivano da Arabia Saudita, Siria, Tunisia, Algeria. Hanno bisogno di posti, mezzi, soldi, armi. Qui intervengono gli iracheni. I jihadisti hanno trovato un santuario. Quando quel tunisino ha detto ‘buongiorno’, tutti sapevano che non era iracheno e che non era qui per la pace. Sono i tunisini, egiziani, sauditi, yemeniti e algerini i veri ‘stranieri’ in Iraq, non gli americani. Quando Saddam fu portato davanti al giudice, nelle terre arabe fu compreso il significato del dramma. Una nuova storia, esitante e oscurata dall’insorgenza, fu scritta quel giorno”. Trent’anni fa un siriano alawita delle montagne prese il potere a Damasco. “Tutti dissero: ‘Non durerà, è alawi’. Fu uno shock. I suoi eredi sono ancora al potere. La guerra per Baghdad è parte di questa storia. Vedrete che anche questo ordine iracheno diventerà forte e maturo”. Ajami non si lagna dell’etichetta di “informatore”. “L’America ha liberato 70 milioni di musulmani kuwaitiani, kosovari, bosniaci, afghani e iracheni. Nel 1991 ha liberato il Kuwait. Nel 1995, con il mio amico Richard Holbrooke, eravamo in Bosnia. Poi Kosovo, Kabul e Baghdad. La pax americana è generosa con il mondo islamico. La maggioranza irachena vede con gratitudine gli americani. Siamo noi a non aver compreso cosa abbiamo fatto in Iraq. Abbiamo creato una nuova storia. E’ il momento di fare la pace con essa. ‘Fucile da un lato, chiave inglese dall’altro’ per dirla con Petraeus”. La barbarie jihadista continuerà a rigare di sangue le strade dell’Iraq. “Finirà il giorno in cui il prossimo tunisino verrà ucciso prima che si faccia esplodere. Quel giorno arriverà. Il più grande poeta iracheno, Badr Shakir al Sayyab, parla di questa attesa della pioggia. Ogni anno gli iracheni aspettavano la pioggia. E la liberazione. La democrazia è più forte del jihad, non la democrazia come nel Connecticut, ma come governo di popolo, non di un uomo solo. I palazzi reali di Damasco, Cairo e Amman sono abitati da autocrati e padroni. Chi possiede l’Iraq? Forse l’ayatollah al Sistani? Non c’erano sedie o tavoli a casa sua a Najaf, le pareti totalmente vuote tranne una cornice in vetro che diceva: ‘Benedetti coloro che ascoltano’. Sistani vive in affitto. Questa è la miglior immagine del nuovo Iraq”.

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