La REPUBBLICA del 25 aprile pubblica a pagina 45 un’intervista di Antonio Monda a Nathan Englander intitolata “Dalla parte delle vittime”. L’autore del libro “Per alleviare insopprimibili impulsi” pubblicato in Italia dalla casa editrice Einaudi e che ebbe un enorme successo di pubblico e critica, pubblica ora in America, a distanza di otto anni dal suo esordio, il nuovo romanzo. Ed è già un caso letterario.
Sono passati otto anni da quando Nathan Englander diede alle stampe la raccolta di racconti intitolata “Per alleviare insopprimibili impulsi”, il sorprendente esordio letterario che ne rivelò il folgorante talento narrativo ed una sensibilità originalissima, che gli ha consentito di rivisitare la lezione di Gogol e Singer all’interno di una visione del mondo estremamente personale, nel quale l’ironia rappresenta l’unico rimedio possibile contro il male di vivere. La raccolta diventò un caso letterario tradotto in ogni parte del mondo, (in Italia da Einaudi) ma, nonostante richieste pressanti di nuovi libri, Englander decise di trasferirsi a Gerusalemme, dove visse per cinque anni “povero in canna”, ma “felice di imparare a conoscere il proprio popolo” e condividere con esso la riflessione, a volte religiosa, e molto più spesso secolare, su come reagire di fronte all’assurdità dell’esistenza. In quel periodo, e nei tre anni a seguire, ha scritto un romanzo arrivato in una prima stesura sino a settecento pagine, e che poi, attraverso un ossessivo lavoro di revisione e limatura effettuato a mano sui tavoli dell’Hungarian Pastry Shop di New York, ha trovato la propria completezza in una dimensione dimezzata, con la quale è stato pubblicato in questi giorni in America presso
la Knopf. Il romanzo, a proposito del quale il Kirkus Review ha scritto “Englander ha mantenuto le grandi promesse del suo debutto persino al di là di ogni aspettativa e Booklist lo ha definito “folgorante, potente, commovente. Politico e insieme estremamente personale”, uscirà a settembre in Italia per Mondatori con il titolo “Il ministero dei casi speciali” e l’autore andrà a Mantova per presentarlo. L’ambientazione è l’Argentina dei desaparecidos, e protagonista è una famiglia ebraica, la cui vita viene sconvolta dall’improvvisa scomparsa del giovane figlio. Il tono combina ancora una volta l’ironia con la tragedia, la speranza con lo sgomento, e sin dall’incipit risulta evidente che il talento manifestato nei racconti ha trovato conferma in un romanzo ancora una volta di sorprendente qualità, ed estremamente diverso per genere, ambizioni e visione del mondo da quello che hanno raccontato negli ultimi anni gli scrittori della sua generazione. “Non le nascondo che ho vissuto tutto il periodo precedente all’uscita con trepidazione”, racconta nel suo appartamento dell’Upper West Side, nel quale i DVD si mescolano ai libri. “La sorte di chi è reduce da un successo è quella di essere giudicato severamente, ma nel mio caso c’è stata una attesa lunghissima, ed il passaggio dai racconti al romanzo”. Perché ha atteso otto anni? “Mi rendo conto che è un tempo molto lungo, ma è quello che questo romanzo esigeva”. Cosa ha significato passare dal racconto al romanzo? “E’ stato molto più difficile di quello che immaginassi. Il romanzo non è semplicemente un racconto allungato. E non ci si può neanche appoggiare esclusivamente sulla forza della storia, ma sulla delineazione dei personaggi, e sulla solidità dell’impianto” Da dove nasce l’idea del libro? “Da molte suggestioni e ricordi differenti. E dalla mia ossessione riguardo ai temi dell’ingiustizia, del governo e della comunità. Tuttavia l’ispirazione principale nasce da un viaggio che ho fatto in Argentina nel 1991. Rimasi profondamente colpito da qualcosa che poi ritrovai in Israele: il tentativo da parte dei parenti delle vittime di attentati di trovare almeno una parte del corpo dei loro cari. Nel caso dell’Argentina quello che succedeva, e che poi è diventato una parte centrale del mio libro, era relativo alle persone scomparse durante la dittatura militare. Rimasi sconvolto, ma anche affascinato dalla volontà di riportare a casa un osso, una gamba, una qualunque parte del corpo…Pensai alla necessità che sentivano costoro di dare importanza al corpo stesso, anche se ormai di un defunto e mi venne in mente la visita al campo di concentramento di Monowice, dove mi sconvolse l’enorme memoriale costruito intorno ad una montagna di ceneri”. E’ vero che conosce a stento l’Argentina? “Verissimo. Non sono mai tornato dopo quella volta. E sia il mio agente che il mio editore mi hanno dissuaso dal farlo, probabilmente perché temevano che ci avrei messo altri dieci anni prima di consegnare il manoscritto”. Lei ha dichiarato ripetutamente di amare i libri in cui i personaggi si sentono in trappola. “Amo molto Kafka, ma anche i libri in cui questa condizione non è necessariamente legata ad una costrizione fisica. Non saprei spiegarle il motivo, ma è certo che succede lo stesso con i film che prediligo, ad esempio i thriller paranoici degli anni Settanta, dove il protagonista si trova all’improvviso al centro di un complotto: I tre giorni del Condor, Il maratoneta…” Il protagonista del nuovo romanzo si chiama Kaddish, che è la parola ebraica che indica la preghiera dei defunti. “Le rispondo dicendo che il tema del mio romanzo è l’identità. Ho sempre dato un’importanza fondamentale ai nomi, e al significato che riflettono nelle vite di chi li porta, sia in opposizione che come metafora della loro stessa esistenza”. Il libro cita un proverbio yiddish che non avevo mai sentito: “il dottore e il becchino sono partner”. “Uno dei tanti motivi per cui ci ho messo tanto tempo a consegnare il libro è dovuto al fatto che ho dovuto controllare minuziosamente ogni dettaglio. Probabilmente si tratta della mia paura delle autorità. Questo proverbio mi è stato citato da un amico, ma non sono mai più riuscito a trovarlo sui testi. Eppure ho deciso di inserirlo: è perfettamente in tema con il libro, e nello stesso tempo il fatto che mi venisse raccontato rappresentava l’inizio di quella tradizione orale che è alla base dei proverbi” L’incipit è estremamente importante: “Gli ebrei sono seppelliti nella maniera in cui vivono, ammassati l’uno sull’altro, rubandosi lo spazio a vicenda”. Eppure per molto tempo prima di questa apertura c’era un altro incipit in cui si raccontava di sette uomini all’interno di un cimitero. “Non creda che tagliarlo non mi sia costato. Ma ho cercato il bene del libro. Non riuscivo ad accettare che quei sette personaggi sparissero, così come mi sembrava non necessario allungare il loro spazio”. Si può definire il libro come una farsa tragica? “Lascio a lei le definizioni. Io mi limito a dire che la vicenda poteva essere trasformata in un dramma a tinte fosche. E questo credo che non sia successo. C’è dolore e angoscia, e forse senza l’humour sarebbe intollerabile”. C’è una lunga storia su un naso rifatto. “E’ un altro modo per sottolineare l’ossessione per il corpo che diventa culto. Una delle cose che ricordo maggiormente del viaggio in Argentina è la diffusione della chirurgia plastica”. Un altro capitolo inizia con queste parole: “Gli uomini muoiono ogni giorno. La casa gli brucia intorno. Cadono dalla scala e dal tetto. Ingoiano grosse olive dalla canna sbagliata”. Ritiene di avere un approccio nichilista o umanista? “Credo in quello che è definito a volte in maniera dispregiativa pensiero negativo, ed ho paura delle mie speranze. Il pensiero positivo, quando è superficiale e non tiene conto del dolore dell’esistenza può distruggere l’intero universo. Solo questa consapevolezza può salvare le nostre speranze.
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