Il commercio tra Israele e territori palestinesi, stroncato dal terrorismo reportage di Francesca Paci
Testata: La Stampa Data: 25 aprile 2007 Pagina: 19 Autore: Francesca Paci Titolo: «Palestina a metà prezzo Far la spesa col nemico»
Da La STAMPA del 25 aprile 2007:
Liat esita un po’, guarda perplessa gli amici seduti sul prato nel parco di Ben-Shemen, poi cede: ebbene sì, i cetrioli, l’hummus, le ali di pollo e le bistecche per il barbecue del giorno dell’indipendenza d’Israele vengono da Ramallah. «Era dal 2002 che non facevo la spesa dall’altra parte. Quest’anno ho approfittato di un conoscente che lavora in un’organizzazione internazionale e mi sono fatta comprare il necessario per il pic-nic del 24 aprile». Con 250 schekel, circa 50 euro, ha cucinato per una decina di persone. A Gerusalemme avrebbe speso il doppio. Fino a sei anni fa la Cisgiordania era l’hard discount degli israeliani. Economico, fornito, a portata di mano. E i palestinesi dietro al banco del pesce assai diversi dalla macabra sagoma del kamikaze: volti amici, negozianti di fiducia, confidenti talvolta, da cui imparare la ricetta di un villaggio vivo solo nella memoria. Il sabato cittadine come Bidia e Kalkilya, al nord di Tel Aviv, sulla linea verde che delimita i confini del 1967, si trasformavano in enormi bazar all’aperto per i clienti «dell’altra parte» con ingorghi all'entrata e all’uscita segnalati dalla radio militare, zone franche nel territorio del conflitto permanente dove sperimentare la diplomazia del mercato. L’intifada, gli attentati e le ritorsioni dell’esercito, la costruzione della trincea difensiva che gli israeliani chiamano «barriera» e i palestinesi «muro» hanno cambiato con la geografia anche l’economia della regione. «Noi commercianti siamo alle corde, ho perso quasi tutti i miei clienti», lamenta Mustafà, fruttivendolo di Betlemme che vende mele, fragole e vino di Cana. Non che Liat, 33 anni, impiegata, meno di mille euro al mese e due bimbi, desisterebbe tanto facilmente. Ma i suoi connazionali in divisa le impediscono di oltrepassare i check point, con o senza le sporte. L’unica chance è affidare la lista della spesa ai volontari internazionali, gli unici autorizzati ad attraversare la soglia e tornare indietro. Ramallah dista appena 16 chilometri da Gerusalemme. Uno stradone costeggiato da case basse e negozi di mobili da giardino collega le due città in un unico esteso tessuto urbano. Fino al posto di blocco. Al di là, per chi può passare, c’è «l’altra parte». Vialoni male asfaltati, cantieri in ogni angolo, palazzi che vengono su in mezzo al nulla come i figli, e grandi magazzini, un’insegna dopo l’altra. I beni di consumo non mancano, mancano i consumatori. Sugli scaffali del supermercato della catena Plaza, nel quartiere al Balouha, vicino all’uscita per Nablus, trovi i brand locali e quelli globali, Barilla, Knorr, Santal. La Coca Cola, uscita vincitrice dal confronto con la neonata Mecca Cola. Tutto o quasi a metà prezzo rispetto a un listino medio israeliano. E non serve una massaia specializzata in economia domestica per capire che vista dal Plaza anche l’economica Talpiot, l’area industriale di Gerusalemme, appare esosa. Lo yogurt laban? Uno schekel contro due. Mezzo chilo di hummus? 6,30 schekel invece di 11,50. Un tavolo da giardino con quattro sedie? 280 schekel qui, lì almeno 500. L’economia familiare è la prima vittima della separazione coatta tra Israele e Cisgiordania, la narrativa dei due popoli è la seconda. Il supermercato è una metafora, osserva il giornalista palestinese Eid Bassem, direttore del Palestinian Human Rights Group: «Mangiamo le stesse cose e non ci incontriamo più neppure a fare la spesa. Le nuove generazioni di israeliani e palestinesi crescono convinti che dall’altra parte ci siano solo kamikaze o militari». Invece c’è anche l’hummus cremoso nel quale Sarah, la figlia di 4 anni di Liat, immerge la piadina, la «pita», ignara che provenga da tanto lontano, da prima che nascesse.
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