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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Irène Némirovsky - Jezabel 23/04/2007

Jezabel – Irène Némirovsky

Traduzione di Laura Frausin Guarino

Adelphi Euro 16,50

Tutto il romanzo è giocato nel primo capitolo, quaranta tese e densissime pagine per capire veramente le quali è poi necessario il resto del libro. A lettura ultimata, si deve tornare su quel capitolo d’apertura, e rileggerlo. Ogni parola, ogni riga, ogni frase ci suonerà diversa, ribaltata. Un meccanismo di straordinaria sapienza narrativa.

Jezabel si apre con la scena di un processo. Siamo a Parigi, in un’aula di tribunale soffocata dal caldo umido di un’estate piovosa, circa a metà degli anni Trenta. L’imputata è una donna di grande bellezza, non più giovane ma preservata dal tempo. Ha ucciso un uomo, Bernard Martin, ventenne, squattrinato studente di lettere, conosciuto un anno prima del delitto.

La donna, Gladys Eysenach, non nega di averlo ucciso, e non chiede clemenza. La difesa invoca il delitto passionale: ossessionata dal terrore dell’età e legata al conte italiano Aldo Monti, nel timore che lui la tradisse con donne più giovani, si sarebbe concessa l’avventura con il ventenne per dimostrare soprattutto a sé stessa quanto ancora era desiderabile. Poi la vicenda avrebbe preso una brutta piega e Gladys Eysenach – sotto ricatto – avrebbe perso la testa all’idea di venir smascherata. E avrebbe sparato uccidendo Martin. Dalle parole dei testimoni chiamati a deporre emerge il ritratto dell’imputata vista dal di fuori, e suscita pietà quel terrore patologico della vecchiaia che ha fatto di Gladys un’assassina. E’ lei Jezabel, che nella tragedia di Racine appare in sogno alla figlia Athalie, parata di finta bellezza e apparentemente intatta, ma già carpita da un pallore di morte.

La condanna è lieve, cinque anni, per via delle attenuanti.

Sfollato il pubblico dall’aula del tribunale, comincia il lungo racconto della vita di quella donna. Questa volta, il ritratto è dall’interno. L’autrice, Irène Némirovsky, ci parla – per interposta persona – di sua madre. Inventando la storia di Gladys Eysenach, cerca lei stessa di capire come possa una donna, come abbia potuto sua madre, vivere la propria vita completamente dominata dall’amore di sé. Come Gladys, la madre di Irène aveva cercato nella vacuezza della vita mondana, in relazioni superficiali, viaggi, soldi, gioielli, il travestimento posticcio a un immenso vuoto interiore. La flessuosità del suo corpo, la bellezza del suo volto che il tempo sembrava non poter scalfire erano state l’unica ragione di vita. Irène, figlia, aveva sofferto nell’infanzia e nell’adolescenza. Crescendo, aveva percepito l’odio della madre che vedeva in lei l’inaccettabile denuncia del passare degli anni.

La figlia di Gladys, nel romanzo, ha una sorte tragica, dolorosissima. Anche Irène Némirovsky ha avuto un destino tragico, che la follia della storia le ha riservato. Ebrea russa nata a Kiev nel 1903, fuoriuscita con la famiglia dopo la rivoluzione e approdata dopo un lungo peregrinare nella Parigi delle années folles – ambiente ideale per le intemperanze della madre – morì a Auschwitz nel ’42. Lasciava due bambine, salvate dalla dedizione di una governante, che (disconosciute dalla nonna, incapace d’amore anche nei loro confronti come lo era stata con Irène) da adulte hanno dedicato la vita alla riscoperta della loro mamma, grandissima scrittrice. Adelphi ha già pubblicato alcuni dei suoi capolavori, come David Golden e Suite francese, e con Jezabel (nella bella traduzione di Laura Frausin Guarino) aggiunge un tassello toccante al mosaico della sua opera.

Nella tragedia classica, è il peccato di tracotanza, commesso dai padri o dalle madri, a condannare i figli. Così avviene in Jezabel. Ma Irène Némirovsky, che pure come in questo e in altri suoi libri dà sfogo al dolore di un’infanzia rubata, riesce ad attuare il riscatto. Con la scrittura salva sé stessa, certo, ma attraverso la finzione assolve quasi del tutto anche la madre. Si può leggere il perdono, in questo romanzo, un perdono liberatorio. Il che non toglie niente alla lucidità del ritratto, anzi lo accresce. Gladys Eysenach viene rivoltata come un guanto, come quel primo capitolo che a una seconda lettura vi apparirà in una nuova luce, quasi l’autrice l’avesse riscritto mentre voi voltavate le pagine.

Gabriella Bosco

Tuttolibri – La Stampa


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