mercoledi` 27 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






L'Espresso Rassegna Stampa
20.04.2007 Una tesi "estrema" : disintegrare Israele
intervista in ginocchio a un capo del terrorismo palestinese

Testata: L'Espresso
Data: 20 aprile 2007
Pagina: 115
Autore: Gianni Perrelli
Titolo: «Palestina lotta continua»

Israele va cancellata o disintegrata? Verte su argomenti simili l'amichevole conversazione tra Gianni Perelli e il terrorista palestinese "in esilio" a Damasco Ahmed Jibril.
Si tratta, secondo l'ESPRESSO che pubblica il testo, di tesi giusto un po' estreme.
Ma se ne può discutere, pare di capire.
Formidabile la conclusione dell'intervista, nella migliore tradizione delle interviste in ginocchio agli idoli "guerriglieri", da Castro ad Arafat.
Jibril ha 70 anni ma il cuore giovane, e spera ancora di tornare al suo villaggio natale, in Israele. Quando lo Stato degli ebrei non esisterà più.

Ecco l'articolo e l'introduzione dell'ESPRESSO:

Dalla fine politica di Israele deve nascere uno Stato unico. Con capitale Gerusalemme. La tesi estrema del fondatore del Fronte di liberazione in esilio in Siria
colloquio con Ahmed Jibril


Dopo tanti fallimenti gli Stati Uniti hanno capito che non si pacifica il Medio Oriente se non si risolve la questione palestinese. Durante la guerra fredda non ci consideravano neanche un popolo, ma solo una colonia di profughi. Gli israeliani, che difendevano nell'area gli interessi di Washington, non si rendevano ben conto della nostra esistenza. Moshé Dayan nel '68 negava i nostri diritti. La tragedia irachena ha aperto nuove prospettive. Ma occorre che la Palestina libera sorga in fretta. Se non ci saranno sbocchi rapidi, considero inevitabile una terza intifada...

Ahmed Jibril, il capo della guerriglia palestinese che negli anni Settanta in Libano inventò le azioni suicide e che teorizzò nell'87 la nascita della rivolta delle pietre, è stanco degli indugi della diplomazia. Quasi settantenne, dall'82 vive in esilio a Damasco (in Siria sono un milione e mezzo i palestinesi) dove dirige il Fronte popolare per la liberazione della Palestina-Comando generale, scheggia comunista con cellule militari attive uscita dalla galassia dell'Olp e divorziata per dissensi sulla strategia dal Fronte popolare di George Habash. Non dispera, un giorno non lontano, di rimettere piede nella sua terra. Ma esclude di poter riconoscere mai Israele.

"Il momento per una soluzione è favorevole", precisa il condottiero: "Israele è più debole. George Bush è in difficoltà su tutti i fronti. Si era illuso forse di invadere, dopo l'Iraq, anche l'Iran e la Siria per imporre il suo ordine. E di liquidare tramite la guerra in Libano il movimento di Hezbollah trasferendo i suoi capi a Guantanamo. In questo modo noi palestinesi saremmo rimasti isolati. Le nostre aspirazioni sarebbero state una volta di più calpestate. Ma la storia ha preso un'altra piega. Gli stessi governi arabi fanno pressioni su Washington perché corregga i suoi colossali errori. La sola strada per uscire da una situazione ormai insostenibile è l'abbandono dell'uso della forza e il successivo riconoscimento dello Stato palestinese. Oggi siamo molto meno fragili che agli inizi degli anni Novanta, quando Yasser Arafat a Oslo, per ottenere il mandato dell'Autorità nazionale palestinese su Gaza e sulla Cisgiordania, fu costretto ad accettare condizioni capestro".

Sarete anche meno fragili, ma rimanete divisi. Avete incontrato grosse difficoltà perfino a formare un governo.

"Il presidente Abu Mazen deve prendere atto che le elezioni le ha vinte Hamas, sostenuto anche dalla maggioranza dei palestinesi cristiani che voleva castigare la corruzione del vecchio gruppo dirigente di Al Fatah. Nel 2006 l'esito democratico è stato boicottato. Si è cercato di soffocare il legittimo governo, sottraendogli addirittura il ministero dell'Interno che ha il solo compito di regolare il traffico. Si è arrivati al punto di punire gli elettori di Hamas, privandoli dei sussidi. Non è servito a nulla. Abu Mazen, nel vertice della Mecca per la formazione di un governo di unità nazionale, ha dovuto riconoscere le ragioni di Hamas. L'aspetto più importante è che si sia posto fine alla guerra fratricida".

Lo scoglio principale, che frena anche la nascita dello Stato palestinese, rimane il riconoscimento di Israele. Non potete pretendere che vi venga concessa la sovranità se non accettate la coabitazione pacifica con lo Stato che avete sempre combattuto.

"Hamas si è già pronunciata. Non riconoscerà Israele. Né condannerà le azioni contro Israele. Il primo ministro Ismail Haniyeh ha esplicitamente detto che il recente attentato compiuto da un martire suicida della Jihad è una conseguenza dell'occupazione. Hamas pone una questione seria: la soluzione del problema palestinese deve essere globale, non unilaterale".

Ma è una posizione irrealistica, che non aiuta il negoziato. Israele è ancora talmente diffidente che sembra disposta al massimo a offrire un confine provvisorio.

"È un imbroglio. Con questo trucco vogliono portarci via il 45 per cento del nostro territorio e prendere tempo. Il popolo palestinese, al di là delle divisioni interne, ha invece obiettivi molto più ampi: la costituzione di uno Stato sovrano esteso anche sui territori occupati da Israele nel 1967; Gerusalemme capitale; diritto al ritorno a casa per tutti i profughi".

Ma voi in cambio di questo pacchetto sareste disposti a riconoscere Israele?

"Questo è impossibile. Io sono nato a Yazur, un villaggio del Mediterraneo a cento chilometri da qui. Sono stato espulso con la forza delle armi. Come potrei mai perdonare chi mi ha tolto le radici e mi impedisce di vivere nella mia casa?".

Ma non si può nemmeno negare l'esistenza di Israele.

"Sappiamo che Israele è una realtà. Ma non riconosciamo il diritto storico degli ebrei di occupare la nostra terra. Sono venuti da lontano e ci hanno cacciato. Oggi che non riescono più a difendere gli interessi degli americani in Medio Oriente, e come ha dimostrato la guerra in Libano sono anche meno forti militarmente, rischiano che il loro Stato si disintegri".

Lei è quindi sulle posizioni del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad che si augura la cancellazione di Israele dalla carta geografica.

"Ahmadinejad non ha detto esattamente questo. Ha parlato di disintegrazione di Israele come entità politica".

E dove dovrebbero andare i cittadini israeliani privi di uno Stato?

"Se Israele cessasse di esistere, gli ebrei di origine araba potrebbero vivere tranquillamente nel nuovo Stato che noi fonderemmo. Per tutti gli altri sarebbe un problema delle potenze occidentali. Li hanno fatti venire coi piroscafi, dovranno trovare un'altra soluzione".

Abu Mazen sembra però disposto a riconoscere Israele.

"Conosco Abu Mazen da 40 anni. Gli ho sempre ricordato che i palestinesi non possono arretrare rispetto alla risoluzione 181 dell'Onu che prevede la coesistenza di due Stati. L'ultima volta che è venuto a Damasco per incontrare Khaled Mechaal, il capo in esilio di Hamas, mi sono rifiutato di parlargli. Prima di arrivare l'avevo visto familiarizzare in un vertice con Ehud Olmert. Mangiavano insieme, come se niente fosse. Abu Mazen ha un atteggiamento troppo emotivo. Mi rendo conto che qualche volta sei costretto a sederti a un tavolo con il nemico, ma non puoi poi esagerare fino a comportarti quasi come un amico".

Per molti anni lei è stato in rapporti freddi anche con Yasser Arafat.

"I contatti si erano interrotti nell'82, quando lasciammo il Libano. Arafat si è accorto in fin di vita che nel processo negoziale aveva concesso troppo agli israeliani. Aveva rinunciato a Gerusalemme capitale e al diritto del ritorno. Quand'era sul punto di morte gli sono tornato amico. L'ho chiamato spesso e l'ho invitato a resistere. Per aiutarlo, nel 2002 ho ordinato a mio figlio Jihad di portargli un carico di armi in Cisgiordania. Ma i soldati israeliani hanno individuato il suo commando e l'hanno ucciso".

C'è qualche leader israeliano con cui ritiene che sarebbe utile dialogare?

"C'è molta differenza fra i vecchi leader e i nuovi. Posso dire che oggi c'è più gente disposta a parlare fuori dagli schemi. A criticare apertamente gli americani. Per esempio Yossi Belin, capogruppo del Meretz. Negli stessi discorsi del leader laburista Amir Peretz sento accenti diversi. Però girano ancora al largo, non mettono le mani sulla ferita".

Con Ariel Sharon sarebbe stato disposto a trattare?

"Sharon è stato l'ultimo re di Israele".

Spera sempre di rivedere il suo villaggio natale?

"Non ho compiuto 70 anni. Sento di avere il cuore ancora giovane".

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione dell'Espresso


espresso@espressoedit.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT