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La Stampa Rassegna Stampa
20.04.2007 Barbara Spinelli difende gli antisemiti di sinistra
ma non risponde alle critiche che Gadi Luzzato Voghera ha rivolto a lei

Testata: La Stampa
Data: 20 aprile 2007
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli
Titolo: «Sinistra antisemita? Criticare Israele si può»

Barbara Spinelli, sulla STAMPA del 20 aprile 2007, recensisce il libro di Gadi Luzzato Voghera Antisemitismo a Sinistra.
Stranamente la Spinelli non risponde alle critiche che Luzzato Voghera rivolge direttamente a lei.
Si preoccupa invece di difendere Massimo D'Alema, che  dunque ha fatto bene a dividere gli ebrei italiani tra "democratici", che criticano Israele e sono troppo pochi, e non "democratici", che appoggiano Israele.
Bene avrebbero fatto anche
John  Mearsheimer e Stephen Walt ad attaccare la "lobby israeliana", mettendo in questione (ma la Spinelli non sembra rendersene conto)  il diritto costituzionale degli ebrei americani ad avere una posizione sulla politica estera americana in Medio Oriente diversa da quella degli stessi  Mearsheimer e Walt.
Anche per Barbara Spinelli, del resto,  gli ebrei, per non essere "arretrati", dovrebbero adottare le idee antisraeliane e antisioniste di George Soros, Tony Judt e di buona parte dei "nuovi storici" israeliani.
Anche se Barbara Spinelli accusa gli avversari delle posizioni antisraeliane di non entrare nel merito delle questioni, e di usare a scopo intimidatorio l'accusa di antisemitismo, in realtà è lei a mantenere la discussione su un piano generico e a fare un uso manipolatorio delle parole: gli ebrei che attaccano Israele, per esempio, non sono "dissidenti", dato che non c'è nessuno Stato totalitario pronto a incarcerarli e che, al contrario,  per le loro prese di posizioni ricevono l'aperto consenso e il plauso della cultura "progressista" che odia Israele.
Israele, poi, non è semplicemente "criticata". 
Si nega il suo diritto ad esistere, le sue azioni di autodifesa sono descritte come manifestazioni di una malvagia volontà omicida, è giudicata secondo standard che non sono applicati agli altri stati.
E' di questa realtà imbarbarita del dibattito sul conflitto Medio Orientale che si dovrebbe discutere, mentre Barbara Spinelli sembra volerla  accuratamente  ignorare .

Ecco il testo:

 
Gadi Luzzatto Voghera, storico dell’ebraismo, ha scritto un libro su una questione importante: Antisemitismo a Sinistra, edito da Einaudi, rammenta agli italiani che si può esser di sinistra e al tempo stesso antisemiti, e che la sinistra non è innocente. È importante che lo ricordi, perché la smemoratezza spesso perdura: smemoratezza delle riluttanze con cui i socialisti francesi si schierarono a favore del capitano Dreyfus, nell’800; smemoratezza dell’antisemitismo in Urss ed Europa orientale; smemoratezza della preminenza che per decenni fu data agli antifascisti uccisi nei Lager, e del lungo occultamento del genocidio antiebraico. Ma i più ormai sanno. La «compatibilità fra sinistra e antisemitismo» non è un’opinione ma un fatto inconfutabile. E anzi stupisce che l’autore sorvoli sull’evento che per anni rallentò l’antifascismo: il patto Hitler-Stalin, corruttore di molti comunisti europei.
Leggendo il libro di Luzzatto, tuttavia, si ha l’impressione che l’autore si fermi davanti alle vere questioni, che non sono quelle di ieri ma di oggi, che sono legate al passato europeo ma che coinvolgono fattori nuovi come il radicalismo islamico, il rafforzarsi dell’Iran a seguito delle guerre occidentali contro il terrore, e la politica d’Israele. Sono questioni dibattute con crescente senso d’urgenza, ma non in Italia e non nella nostra comunità ebraica. Riguardano le responsabilità della diaspora verso l’agire israeliano ma anche la responsabilità d’Israele verso la diaspora. Riguardano il sionismo come fede nazionalista che ebbe ragion d’essere dopo Auschwitz ma che fu sempre controverso nell’ebraismo. Grandi pensatori come Hannah Arendt e Arthur Koestler giudicarono perniciosa la sua indifferenza alla sorte dei palestinesi, incolpevoli della Shoah. Era ebreo anche Emery Reves, convinto fin dal ‘45 che i suoi correligionari rischiavano un errore tragico: aggrapparsi al modello tribale di stato-nazione che aveva condotto l’Europa e gli ebrei alla catastrofe (Anatomia della Pace, Il Mulino 1990).
Su questi temi c’è nelle comunità in diaspora non solo poca discussione, ma qualcosa di più distruttivo: c’è un’atmosfera chiusa, fatta di sospetti, denigrazioni. È come se l’ebreo italiano o israeliano, per aver molto patito, fosse divenuto immune alle critiche: uno sviluppo che l’autore stesso respinge, quando disapprova l’identificazione dell’ebreo con la figura di vittima. Un ebreo che coltivi il libero pensiero accetta la riprovazione, e usa con cautela le due accuse che istintivamente gli vengono in mente: l’accusa di l’odio di sé, lanciata all’ebreo dissidente, e l’accusa di antisemitismo, quest’arma brandita con conturbante frequenza, non solo per ammonire ma per azzittire. Un ebreo che voglia conoscere se stesso cerca di capire quel che fa di lui un ebreo: è una terra? un’etnia? una religione e una cultura vissute come collettivo? come individuo? Se dentro di sé trova una risposta, accetterà meno timorosamente i giudizi sullo Stato d’Israele.
Le discussioni italiane su diaspora e Israele, su sionismo e antisemitismo sono particolarmente arretrate, rispetto alla quantità e qualità delle discussioni che stanno nascendo altrove, e questo libro riflette, in parte, una certa impermeabilità della comunità ebraica italiana al nuovo. Quel che colpisce nel libro è l’insistere su qualcosa che altrove si va sfaldando: la necessità sillogistica che riconduce all’antisemitismo le più svariate posizioni politiche (critica del sionismo, dell’America, del capitalismo, dello sviluppo tecnologico).
In America e Inghilterra è una discussione vasta, quella che si sta aprendo sull’equiparazione automatica fra America, capitalismo, Israele, antisemitismo: equiparazione che l’autore a volte ricusa, ma fondamentalmente fa propria. La discussione ha le sue radici in Israele, perché è qui che iniziò negli anni 80 una nuova storiografia non sionista, ma il fallimento della guerra in Iraq e poi di quella israeliana in Libano l’hanno acuita, estesa. È un fallimento che ha diminuito l’egemonia mondiale statunitense, e che ha accentuato anche la diffidenza degli ebrei Usa verso Bush. Nonostante il peso abnorme dei gruppi d’interesse israeliani - in particolare l’Aipac, American Israel Public Affairs Committee, legato ai neoconservatori e alla destra israeliana - gli ebrei in America sono il gruppo religioso che più avversa la guerra in Iraq (77 per cento contro 22 favorevoli, in un sondaggio Gallup del febbraio 2007, ben più della media americana).
Sicché quando il ministro D’Alema afferma che «noi abbiamo bisogno di una comunità ebraica che non si separi da Israele (...) ma che sia in grado di esercitare uno stimolo critico», non dice niente di «triste e pericoloso». Dice una verità che non si vuol sentire, un pericolo che si sottovaluta: altri sostengono le stesse cose, in Israele stesso. Da noi è come se il Medio Oriente fosse un’occasione di schieramento ideologico, non una crisi prossima al disastro. È come se in Italia si guardasse il mondo seduti in poltrona, in stanze senza finestre. Altrove le finestre vengono aperte su un mondo di minacce, dunque si discute più liberamente di negoziato con Hamas e di sionismo e dei limiti degli Stati etnici. In questo momento, chi davvero teme per Israele evita le accuse di antisemitismo e opera per cambiare le politiche che lo riaccendono. Nei testi dello storico Tony Judt e nell’ultimo articolo di George Soros (New York Review of Books, 12 aprile) c’è questo allarme, forte. Lo stesso dicasi dei due nuovi siti in Inghilterra e America (Independent Jewish Voices e Mondoweiss). Contestate sono in prima linea le lobby ebraiche americane, contro cui hanno scritto per primi John Mearsheimer and Stephen Walt, in un saggio su London Review of Books del 23-3-2006. Tutti questi autori sono oggetto di calunnia, non di autentica confutazione: neppure un attimo si medita sui fatti che raccontano. Anche questa sordità è una minaccia per Israele e la diaspora. Forse addirittura la più pericolosa.

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