Anche per la marea nera la colpa è di Israele i pregiudizi del quotidiano comunista
Testata: Il Manifesto Data: 18 aprile 2007 Pagina: 13 Autore: Michele Giorgio Titolo: «Gaza, anche la marea nera minaccia i palestinesi»
Non è la scelta di spendere i soldi per le armi anzichè per le infrastrutture e lo sviluppo economico. Non sono l'incapacità degli amministratori e l'irresponsabilità dei gruppi terroristici che continuano ad attaccare Israele rendendo impossibile una vita normale anche agli abitanti della Striscia, continuamente in guerra. A determinare l'emergenza ecologica a Gaza è naturalmente Israele, che pure la Striscia l'ha completamente sgomberata. Le ragioni di sicurezza di Israele sono scritte rigorosamente tra virgolette, i soldati israeliani rapiti sono stati catturati (senza virgolette), a farlo è stato un commando palestinese (i terroristi non esistono).
Il seguente articolo di Michele Giorgio,tratto dal MANIFESTO del 18 aprile 2007, dimostra una volta di più che ogni pretesto è valido per alimentare il pregiudizio ideologico.
Ecco il testo:
Tre milioni di metri cubi di liquame di scarico minacciano Al-Firdaus, un quartiere periferico della città Beit Lahiya, a nord di Gaza city, che rischia perciò di subire la stessa sorte del villaggio beduino di Umm Nasser travolto lo scorso 27 marzo dall'onda di acque putride scatenata dal crollo di una ampia vasca di contenimento del sistema fognario nel nord della Striscia di Gaza. Tre donne e due bambini rimasero uccisi, una trentina di persone ferite e 140 abitazioni vennero distrutte in parte o completamente (i senzatetto sono 2mila). L'emergenza a nord di Gaza tuttavia sembra non preoccupare troppo il nuovo governo palestinese, che ha risposto con misure insufficienti alla minaccia che incombe sulle popolazioni della zona. Lo scorso 11 aprile l'Irin, un'agenzia stampa delle Nazioni Unite, ha messo in guardia che almeno 800 case potrebbero venir cancellate da uno «tsunami» di acque nere se la più grande delle vasche di contenimento, un vero e proprio lago situato ad una altezza superiore di quella di Beit Lahiya, non verrà svuotato immediatamente. «Certo, lo svuotamento sarebbe la soluzione ottimale ma non sappiamo dove pompare le acque, non abbiamo terreni a disposizione per vasche di contenimento alternative», spiega l'ingegnere Yunis Ghalia, della commissione tecnica responsabile dei progetti per lo smaltimento delle acque nere. Preoccupazione esprimono anche gli esperti del «Cric» di Reggio Calabria, una ong impegnata da lungo tempo in un progetto, co-finanziato dal Ministero degli esteri italiano, per la gestione e riciclo dei rifiuti organici urbani proprio nella zona di Beit Lahiya. Le aree individuate per le nuove costruzioni sono nell'area a nord-est di Gaza dove l'esercito israeliano spesso non consente di entrare o di effettuare lavori per «ragioni di sicurezza» poiché da quella parte i militanti palestinesi lanciano razzi artigianali in direzione del territorio dello Stato ebraico. «Abbiamo ottenuto (da Israele) la possibilità di pompare una parte delle acque nere, circa 10mila metri cubi al giorno, verso la nuova vasca di contenimento nella zona est ma solo per due mesi. In questo modo non riusciremo a contenere l'emergenza, abbiamo bisogno di nuovo terreni dove accumulare i liquami ma possiamo trovarli sono nella zona interdetta», aggiunge Ghalia. Il programma di trattamento delle acque nere, «North Gaza Waste Water Project», in atto da due anni è potenzialmente molto valido. Prevede infatti la costruzione di una serie di vasche di contenimento, oltre alle sette già in funzione, dove poter trasformare, con un sofisticato procedimento in tre fasi, i circa 20mila metri cubi di liquami provenienti giornalmente da Beit Lahiya, Beit Hanun, Jabaliya e Umm Nasser, in acque battericamente pure e quindi utilizzabili in parte per l'agricoltura e in parte per incrementare le scarsissime riserve d'acqua sotterranee della Striscia di Gaza. I lavori di ampliamento delle vasche nella zona orientale però sono in parte fermi oppure sono ripresi soltanto nelle ultime settimane in seguito all'allentamento della pressione da parte dell'esercito israeliano che dalla scorsa estate, dopo la cattura del soldato Ghilad Shalit da parte di un commando palestinese, ha lanciato varie offensive militari a nord di Gaza. Le Nazioni Unite però continuano a manifestare dubbi sulla scelta dell'Anp di concentrare un programma di trattamento di liquami in una parte di Gaza così soggetta ai raid e ai cannoneggiamenti dell'artiglieria israeliana. «Beit Lahiya si trova a breve distanza dal transito israeliano di Erez e tutti sanno che in quella zona è davvero difficile lavorare», mette in guardia Stuart Shepherd di Ocha, l'ufficio per il coordinamento degli affari umanitari dell'Onu. Ad Umm Nasser ridotta in un cumulo di macerie dall'ondata di sabbia e liquami la popolazione non dimentica quel 27 marzo. «Erano le 9.30 del mattino quando all'improvviso le nostre case sono state invase da un fiume di acqua sporca e sabbia, tanta sabbia - ricorda Kayad Abrag, che con altri abitanti del villaggio da giorni sosta nella tenda eretta per protestare contro la mancanza di interventi del governo - la tragedia avrebbe potuto essere più grave con un'onda più violenta. Cinque persone però sono morte - e molti di noi non hanno più una casa». Osservando da lontano la distesa di tende bianche messe da disposizione degli sfollati dalla Croce Rossa, un altro abitante di Umm Nasser, Ghaleb Abrag dice: «Il disastro era nell'aria ma le autorità hanno fatto ben poco per evitarlo nonostante fossero state avvertite più volte. Ora devono darci una casa e fare di tutto per impedire che possa ripetersi».
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