Wlodek Goldkorn, sull'ESPRESSO del 16 aprile 2007 scrive un articolo di celebrazione del pluralismo all'interno di Israele e del mondo ebraico.
Certo, Israele è una democrazia. E la libertà di parola vi è garantita anche per le posizioni ostili alla sua stessa esistenza.
Nel mondo ebraico non ci sono i fondamentalisti assassini che terrorizzano il dissenso nell'islam.
Questi fatti costituiscono, indubbiamente, una differenza in positivo.
Ma da essi a dedurre che antisionisti e critici radicali di Israele abbiano ragione ce ne corre.
Il fatto che le posizioni più assurde siano liberamente espresse e dibattute, e che così debba essere, non significa che cessino di essere assurde.
Goldkorn sembra dimenticarlo. Ed'è il genere di dimenticanza che può rendere molto deboli le democrazie.
Ecco il testo:
David Grossman ha scoperto che a 50 anni e passa si possono scrivere poesie d'amore. Giunto all'età in cui di solito gli uomini di successo si danno alle cause nobili, cominciano a tirare le somme della loro vita e meditare su come impiegare utilmente gli anni rimasti loro di piena attività, il grande scrittore ha avvertito invece urgente il bisogno di leggerezza, e vuole comunicare un tenero erotismo. Lo farà il 20 aprile a Tel Aviv quando, davanti a un pubblico scelto, presenterà le sue rime finora inedite. E forse non è un caso se il suo outing come poeta d'amore Grossman lo abbia voluto fare parlandone con Nissim Calderon, teorico di letteratura che qualche mese fa sulle pagine di 'Haaretz' aveva definito il discorso tenuto dallo scrittore ai funerali del figlio Uri, ucciso in Libano l'anno scorso, come "un testo fondante". Calderon lo ha paragonato a un altro discorso, considerato canone dell'esperienza israeliana, fatto da Moshe Dayan, generale, padre della patria, ai funerali di un suo amico, Roi Rutenberg, caduto alle porte di Gaza nel 1956. Dayan esaltò allora i valori della giovinezza, quando "la luce che illumina il cuore, accieca gli occhi", per cui il motore dell'eroismo è l'innocenza che porta l'emozione a prevalere sulla ragione. In queste considerazioni (di Dayan) c'è l'idea del nuovo israeliano, spensierato entusiasta della patria in costruzione, contrapposto al 'vecchio ebreo' della diaspora, tutto dubbio, testa e niente innocenza. Ma ecco, ha scritto Calderon, che Grossman parlando del figlio perduto ha stabilito il canone di un nuovo giovane eroe, rovesciando quello di Dayan. Uri, a 20 anni aveva già una biografia, la sua non era una vita simbolica, ed è stato ucciso nel clima di una "cultura non di consenso, ma di controversie, di ideologie frammentarie, che ognuno arrangia a seconda dei propri gusti e bisogni". In Israele, mentre si combatte, si litiga delle cose più importanti, come la scelta di identità e di appartenenza, e si mette in discussione qualunque dogma e mito su cui è stato fondato lo Stato degli ebrei.
Non doveva essere così, e non era così. Tra meno di due mesi, a giugno cade il quarantesimo anniversario della guerra dei sei giorni, un conflitto brevissimo, intenso, che vide gli ebrei israeliani e anche quelli della diaspora, uniti, senza essere sfiorati da un'ombra di dubbio, convinti che combattere fosse una cosa giusta, ammirati (quelli della diaspora) per la capacità militare dei sabra, nati in Terra d'Israele, per la loro temerarietà, e per la rapidità con cui vennero sconfitti gli eserciti degli Stati arabi vicini. A novembre verrà celebrato il 60esimo anniversario della risoluzione dell'Onu, in base alla quale nel 1948 venne creato lo Stato d'Israele. "Dalla prospettiva di oggi", dice Dan Diner, storico che divide la sua vita tra l'Università di Gerusalemme e quella di Lipsia, "i primi 19 anni dell'esistenza dello Stato sembrano un'eternità, un'epoca d'oro, mentre i quarant'anni successivi appaiono come una situazione provvisoria, un'emergenza da vivere alla giornata". Cosa è successo? È successo, spiega Diner, che fino al 1967 Israele era un piccolo Stato, un organismo che si governava con le proprie leggi laiche, che aveva i suoi confini e che era contrapposto in un conflitto ad altri Stati. Dopo la guerra dei sei giorni invece, in cui Israele conquistò la Cisgiordania (e Sinai e il Golan), l'importante è diventata la Terra d'Israele, un territorio simbolico, perno di un mito che paradossalmente ha poco a che fare con il sionismo e la costruzione di una società e un ebreo nuovi, e molto invece con la diasporica e religiosissima attesa del Messia. Questo slittamento, dalla realtà verso il simbolo, pone in discussione la stessa legittimità di Israele. I confini riconosciuti infatti non sono quelli del 1967, ma quelli del 1949, perché secondo Diner sono "le frontiere di Auschwitz": lo Stato d'Israele nasce in conseguenza della Shoah, e non perché controlla un territorio a differenza di tutti gli altri Stati del mondo. I confini, ama ripetere lo scrittore Grossman, servono non per difendersi dal nemico, quanto per definire se stessi, la propria identità, mai come oggi incerta, anche perché durante i quarant'anni dalla guerra del 1967 sono state abolite le barriere fisiche tra ebrei e arabi.
Sono tante fonti di dubbi sulla giustezza della strada intrapresa, tante cause per cui nessuno più può dirsi giovane, entusiasta e innocente. Le critiche sono esplose negli anni Novanta. Si chiamavano 'postsionisti', un gruppo di storici e sociologi che hanno demolito l'intero impianto ideale dominante allora in Israele. Alcuni hanno detto: quella del sionismo è una storia coloniale, non differente da tante altre, per niente speciale; altri hanno raccontato le atrocità commesse dagli israeliani ai danni dei palestinesi nella guerra d'indipendenza del 1948. Si era nel mezzo del processo della pace coi palestinesi, si pensava che smontare la storia patria servisse ad avvicinare i due popoli. Nel frattempo, il processo della pace si è sfasciato, il 'postsionismo' è anch'esso storia, ma è diventato lecito porre qualunque domanda: come del resto, per 2 mila anni hanno fatto gli ebrei nella diaspora (e qualcuno lo ha scambiato per nevrosi da curare, possibilmente lavorando la terra in Israele).
E siccome tutto è permesso, ecco che è tornata la memoria della diaspora e la nostalgia per l'Europa e per molti paesi da cui provengono gli ebrei israeliani. Una volta, la divisione era netta. Chi arrivava in Israele, cercava di bruciare i ponti alle spalle. Cambiava nome, cognome, passaporto. Oggi è il ritorno. Le ambasciate dei paesi dell'Unione europea sono piene di giovani, che chiedono di riavere la cittadinanza dei loro antenati: un movimento a ritroso. Lo chiamano 'passaporto europeo', non tedesco, polacco, rumeno, slovacco. Come se esistesse una cittadinanza europea: un'illusione ebraica, diasporica, certamente marrana. Una volta avere un figlio che abbia scelto di vivere fuori da Israele era un'onta, oggi i genitori fanno di tutto per mandare i propri figli all'estero. Una volta, data l'esperienza della Shoah, la sicurezza era Israele. Oggi, visto che Auschwitz è tabu in Europa non in Medioriente, sembra esserlo la diaspora: non più rimossa ma studiata e invidiata. Così 'Il requiem tedesco' (Mondadori), un libro di Amos Elon che si occupa della storia degli ebrei di Germania è stato un incredibile bestseller, ha venduto 60 mila copie in un paese di 7 milioni di abitanti. I paesi dell'Est pullulano di businessmen israeliani. Molti professionisti dividono il loro tempo: metà in Israele, metà in Europa.
La diaspora risponde. La Germania, una volta 'terra maledetta' o, al limite, di transito dai campi profughi alla Terra d'Israele, è ridiventata invece una nuova terra promessa. I leader della comunità, contro gli appelli degli israeliani, hanno voluto portare in massa gli ebrei dell'ex Urss. Oggi il numero degli ebrei nel paese è uguale a quello degli anni Venti (quasi 200 mila) e i capi della comunità mentre inaugurano musei, sinagoghe, centri di cultura, ripetono: "La patria è là dov'è la casa". In Francia, attivisti e intellettuali come Diana Pinto auspicano la nascita di un "ebraismo europeo", cosciente della propria storia, capace di costruire un futuro e che guarda Israele con occhio laico. E sempre a Parigi, un filosofo come Edgar Morin, accusato di antisemitismo per le sue radicali critiche a Israele, è stato assolto e poi rilegittimato, conversando amabilmente in tv con Alain Finkielkraut della "complessità dei simboli e delle parole usate": un linguaggio codificato, che significa la piena reintegrazione. In Italia, a Bologna, a febbraio c'è stato un grande convegno in cui intellettuali ebrei e no hanno sviscerato senza pregiudizi e soggezione il rapporto tra diaspora e Israele (rivendicando spesso una cultura non sionista), mentre i rabbini, da Roma a Torino, a Milano, a Firenze, considerano un punto d'onore aprire le loro comunità alle discussioni, le più spregiudicate, e dire cose assolutamente laiche sullo Stato ebraico e sulla tradizione.
Rimane il problema degli Stati Uniti (vedi box). Ma forse l'idea che ogni critica a Israele deve essere un tabù, ha poco a che fare con l'identità o l'appartenenza all'ebraismo e molto invece con l'ideologia neo-conservatrice. Lo ha spiegato, in un bellissimo articolo sul 'New York Review of Books' George Soros, che tranquillamente, senza paura ha denunciato l'Aipac, la lobby filo-israeliana come un'organizzazione che lavora in realtà ai danni della pace, degli ebrei e dell'America stessa. La dimensione extraterritoriale, "lo sguardo marrano" lo chiama Diner, per cui le cose sono viste in contempo da fuori e da dentro, degli ebrei è stata riacquistata e viene vissuta serenamente.
Tutto questo è stato possibile grazie alla rivoluzione in atto in Israele. Basti pensare a una scrittrice come Alona Kimhi. Poco più che 40enne, originaria di Leopoli, in 'Lily la tigre' (Guanda) racconta di una donna grassa, che ama il sesso, soprattutto in volo sugli aerei. Assomiglia per certi versi alle donne di Marc Chagall, persone sospese nell'aria, 'luftmenschen' le chiamavano con disprezzo i sionisti, gente eternamente soggetta a ogni soffio del vento della storia. Era il prototipo di ebreo da 'guarire'. Per la Kimhi, che ci aggiunge un po' di femminismo, questo è invece l'ideale da seguire, come Tel Aviv, la sua città d'elezione è un luogo sospeso nel globo terrestre: né Israele né Mediterraneo, ma "la città". Dice Yigal Schwarz, dell'Università di Beer Sheva: "I nostri scrittori vivono con l'immaginario diasporico, il corpo in Israele, il cuore fuori". Oz in 'Una storia di amore e di tenebra' racconta le sue radici russo-polacco-ucraine. Yehoshua ha scritto la saga del 'Signor Mani', tutta in diaspora. Sami Michael in 'Victoria' narra la vita a Baghdad. Ronit Matalon si dedica a storie ambientate in Egitto. E poi c'è il caso Aharon Appelfeld, lo scrittore che racconta gli ebrei diasporici ('Badenheim' in uscita da Guanda) alla vigilia della catastrofe in Europa, per dire: Israele è come il Vecchio continente prima dell'apocalisse.
In Israele, di un'apocalisse futura e ipotetica parlano in molti. Ma Nissim Calderon esprime un dubbio anche su questo. Come esisteva un kitsch sionista, che voleva un ebreo nuovo, eroico, così oggi c'è il contrario, simmetrico, il kitsch apocalittico, dice. In realtà gli ebrei sono sempre stati normali, in diaspora come oggi in Israele. Sono gente che ama criticare e mettere sempre in dubbio ciò che è il più sacro, perché in fondo ha molte certezze e immensa fede. Gente che oggi, mentre sta bene in Europa, in Israele esprime dei soldati non più con la luce nel cuore, ma che hanno gli occhi per vedere, e la ragione per capire che vale la pena di vivere nell'incertezza, mentre i loro padri scoprono l'importanza dei sentimenti privati come l'amore.
Un articolo di Enrico Pedemonte denuncia la persecuzione (inesistente) di cui sarebbero vittime gli ebrei antisionisti e critici di Israele (tutti docenti universitari, premi nobel, ecc. , con facile accesso ai media).
Perseguitati sarebbero anche Jimmy Carter, che ha definito Israele uno stato di apartheid , John Mearsheimer e Stephen Walt. I politologi che nel loro ormai famoso saggio hanno attaccato la "lobby ebraica", cioè i diritti civili e politici degli ebrei americani. Che dovrebbero includere, come per ogni altro gruppo, il diritto a sostenere una qualsiasi politica estera (per esempio di sostegno all'unica democrazia compiuta del Medio Oriente: politica che per altro appare ragionevole anche a molti americani non ebrei)
Ecco il testo:
Il 'caso Judt' ha inizio il 3 ottobre scorso, quando Tony Judt, storico britannico che insegna alla New York University, viene informato con una telefonata che la sua conferenza al consolato polacco di Manhattan è stata annullata. A Judt non vengono fornite spiegazioni plausibili, ma nei giorni successivi l'ambasciatore polacco ammette di avere ricevuto pressioni da parte di numerose organizzazioni ebraiche. Particolarmente attivo è stato Abraham Foxman, direttore dell'Anti Defamation League. Le posizioni di Tony Judt su Israele non sono gradite, e il titolo della conferenza 'La lobby di Israele e la politica estera americana' non viene giudicato opportuno. La polemica assume subito toni molto accesi perché Judt è un intellettuale ebreo di primissimo piano, che nel corso dell'Olocausto perse diversi membri della famiglia e nel 1967 prese parte come volontario alla Guerra dei sei giorni. Ma negli ultimi anni le sue posizioni su Israele si sono fatte più critiche. In un articolo pubblicato nel 2003 dalla 'New York Review of Books' ha sostenuto la necessità di trasformare Israele in uno stato 'binazionale', unica soluzione al conflitto con i palestinesi. E spesso ha accusato la lobby filo-israeliana americana di avere un'influenza eccessiva e negativa sulla politica estera Usa. Posizioni forti, che fanno crescere l'intolleranza nei suoi confronti all'interno della comunità ebraica. Criticare Israele è diventato un tabù? La polemica cresce. La 'New York Review of Books' pubblica una lettera di attacco a Foxman e all'Anti Defamation League firmata da 114 intellettuali che difendeno il diritto di parola di Judt.
Alvin Rosenfeld, studioso dell'Olocausto, risponde con un saggio pubblicato dall'American Jewish Committee, dove accusa Judt di essere uno dei promotori "della guerra ebraica contro lo Stato ebraico". Anche il 'Jerusalem Post', giornale collocato a destra, assai letto
negli Stati Uniti, assume posizioni simili: "Nel corso della storia, gli ebrei che odiavano
gli ebrei hanno taciuto solo durante l'Olocausto, perché a quell'epoca i nazisti prendevano
di mira tutti gli ebrei".
Judt si difende attaccando. Sull''Observer' accusa l'Anti Defamation League di usare
i metodi simili a quelli dei servizi segreti nelle società comuniste. Sul 'New York Times' descrive così il clima culturale che si è creato: "Gli ebrei sono ridotti al silenzio con
l'obbligo di essere solidali verso Israele, i non ebrei con la paura di essere considerati anti-semiti. Così la discussione è chiusa". Al 'Financial Times' rivela di avere ricevuto
telefonate minatorie, con minacce di morte ai figli. Un anonimo lasciò questo messaggio:
"Dite a Judt che ha telefonato Hitler, e gli fa i complimenti".
Judt è in buona compagnia. Jimmy Carter è stato accusato di antisemitismo per il suo ultimo libro, 'Palestina: Pace non Apartheid' che ha venduto 200 mila copie. John Mearsheimer e Stephen Walt (docenti all'Università di Chicago e a Harvard), dopo avere pubblicato 'La lobby di Israele' sulla 'London Review of Books', nel quale accusavano la lobby filo Israele di avere un'influenza nefasta sulla politica estera Usa, sono stati fatti a pezzi. Nel paese della libertà, criticare Israele è diventato difficile e qualche volta, pericoloso.
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