A rischio la laicità della Turchia ? i timori dei laici per la possibile candidatura del premier Erdogan alla presidenza
Testata: Il Foglio Data: 12 aprile 2007 Pagina: 3 Autore: la redazione Titolo: «Nella Istanbul di Pamuk tutti attendono le parole di Erdogan»
Dal FOGLIO del 12 aprile 2007:
Istanbul. La prossima campagna elettorale turca si aprirà veramente soltanto fra cinque giorni, quando il premier, Recep Tayyip Erdogan, deciderà se candidarsi al posto di presidente della Repubblica. Fino ad allora, fino all’annuncio fatidico, la capitale del paese, Istanbul, sarà sospesa ancora più del solito in quel sentimento di malinconia che in passato ne ha fatto la fortuna, soprattutto tra i viaggiatori occidentali. Da Flaubert a Gide; da Pierre Loti a Iosif Brodskij. La megalopoli turca, rivisitata dal neo Nobel Orhan Pamuk nel suo ultimo libro – a proposito, tanto rumore per nulla: Orhan non è esiliato negli Stati Uniti per sfuggire all’ira dei nazionalisti, è già tornato a casa sua, pare, ma nessuno se ne è curato – trattiene il fiato, in attesa della decisione e delle elezioni presidenziali. “Il fatto che gli abitanti di Istanbul, dopo il crollo del grande impero, fossero condannati a una miseria eterna, quasi avessero una malattia incurabile”, scrive Pamuk a Istanbul, “al cospetto di un’Europa che pure non è lontana geograficamente, alimenta l’anima melanconica di questa città”. Tristezza in turco si dice huzun ed è una parola di origine araba. Ma oggi i suoi abitanti, soprattutto se fanno parte dell’establishment laico e secolarizzato che fa a pugni con la nuova classe dirigente islamista, le attribuiscono un diverso significato. E’ una melanconia politico- sociale. Alla sua atmosfera, così vaga e pressante allo stesso tempo, così caotica senza riuscire però ad essere allegra in modo convincente, nonostante la sua city in espansione – nel quartiere di Maslak, dove circolano i 71 bilioni di euro in transito da e per l’Europa e nonostante i 3.000 club notturni di Taksim dove si pratica ogni di tipo di prostituzione eterosessuale e non – si aggiunge la preoccupazione per l’ incerto futuro politico della Repubblica. Dovuta alla sua voglia di Europa, di cui però anche diffida (la Turchia non ha affatto gradito di essere stata esclusa dai festeggiamenti di Berlino) e di cui si parla fino all’esaurimento – almeno nei salotti e sui giornali – e al suo forte contrasto con quell’area urbana meno conosciuta, islamista al cento per cento, dove le donne della Repubblica laica voluta da Ataturk, quasi tutte immigrate dall’Anatolia rurale, indossano tutte il mantello nero abaya. Secondo un sondaggio il 65 per cento dei turchi hanno approvato il mandato del presidente dimissionario, Ahmet Necdet Sezer, laico e secolarista fino al midollo, che fino ad ora ha rappresentato un valido contrappeso istituzionale ai progetti del partito islamico della Giustizia e dello Sviluppo, Akp – il partito di Erdogan – e nel 2004 si è rifiutato di firmare la legge che voleva introdurre il reato di adulterio. L’Akp invece scioglierà la riserva il 18 aprile e qualche giorno prima imprenditori, medici e studenti si daranno appuntamento ad Ankara per chiedere al premier di non candidarsi “perché se lo immagina cosa diventerà la Turchia con una first lady che indossa il velo?”, dicono in tanti. Se infatti il 17 maggio Erdogan, che in questi giorni sta facendo i conti con la propria ambizione personale e sta stilando la lista dei suoi oppositori che gli stanno chiedendo di fare un passo indietro (ai quali si è accodato anche il Financial Times), arriverà a Cankaya, al palazzo presidenziale, il paese rischia una seria crisi politicoistituzionale che si ripercuoterà anche sulle elezioni parlamentari di novembre. E lo scenario diventerebbe ancora più ombroso degli struggenti panorami di Istanbul. Il suo primo atto istituzionale da presidente sarebbe quello di indicare (entro giugno) un nuovo premier scelto dal Parlamento che potrebbe essere il ministro degli Esteri, Abdullah Gul, oppure il presidente del Parlamento, Bulent Arnc. Entrambi appartenenti all’ala più conservatrice del partito. Le conseguenze? “Oltre alla mancanza di equilibrio istituzionale, si aprirebbe anche una crisi nel partito che potrebbe scindersi e creare spazi per i nazionalisti del Mhp che fino a ora non hanno superato la soglia del 10 per cento per entrare in Parlamento”, fa notare Aldo Kawsloski, un influente industriale di origine italiana, dirigente della confindustria turca ed europeista convinto. “Erdogan è un figura carismatica e rappresenta l’ago della bilancia, sia nel governo sia nel partito. Nel 2001 lo abbiamo sostenuto perché dovevamo superare il baratro della crisi economica, e ci siamo riusciti, ma abbiamo giocato col fuoco”, ammette. Se il premier Erdogan si candidasse (e vincerebbe perché il suo partito ha la maggioranza in Parlamento) chi ostacolerebbe le leggi religiose, da quella per abrogare divieto del velo o delle scuole religiose all’introduzione del reato dell’adulterio? E cosa accadrà al sistema statale basato sul secolarismo kemalista? E se l’esercito si rifiuta di collaborare? E se il presidente sceglierà giudici e rettori universitari simpatizzanti con l’anima islamista della società? “Io ripeto in continuazione al premier di non candidarsi”, aggiunge Kaslowski. I laici affermano che gli islamisti in Turchia rappresentano una minoranza che proviene soprattutto dall’Anatolia (le città nazionaliste di Samsung e Trebisonda sono geograficamente molto lontane), ma è anche vero che a Istanbul esiste una città fantasma, abusiva, composta da 30 mila immigrati, con tanto di sindaco, abusivo pure lui. A dispetto delle politiche promosse dal governo per disincentivare le migrazioni interne dalle zone più tradizionaliste e frenare la crescita demografica che fa paura all’Europa quanto o forse ancora di più dello spettro islamista. Ed ecco perché pochi giorni fa Deniz Baykal, il presidente del partito del popolo repubblicano all’opposizione, laico e kemalista, ha lanciato un grave monito al premier. “Don’t run for president”, gli ha mandato a dire attraverso i giornali.”So che lo desideri fortemente, ma ascoltami seriamente: non farlo”. Un riferimento a un’eventuale reazione dell’esercito? “No – conclude Aldo Kasloswki – l’esercito sa che non può permettersi colpi di mano che infrangerebbero l’alleanza con l’ occidente, e non può fare altro che alzare la voce. Ma la verità è una sola: se il premier Erdogan si candida alla presidenza della Repubblica e Abdullah Gul diventa premier, siamo fregati”. Proprio come evoca Orhan Pamuk in “Istanbul” nel capitolo dedicato al suo rapporto (mancato) con la religione sin dall’infanzia: “La paura che provavo, la stessa delle borghesia laica turca, non era per Allah, ma per la rabbia di coloro che credevano in Allah”.
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