Come sarebbe il Medio Oriente se Saddam fosse ancora al potere ? la domanda da porsi per giudicare la guerra in Iraq
Testata: Il Foglio Data: 12 aprile 2007 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «IN IRAQ SI SBAGLIA, MA L’IRAQ»
Dal FOGLIO del 12 aprile 2007:
Il professore che forgia la retorica di Bush”. Così lo definì il Washington Post due settimane dopo il crollo delle Twin Towers. David Forte è uno dei principali ispiratori intellettuali della politica adottata dalla Casa Bianca dopo l’11 settembre. E’ professore a Cleveland, Ohio, ed è stato consulente per la missione americana alle Nazioni Unite. Ha un bisnonno che ha combattuto con Garibaldi. Da lui Bush ha preso l’idea che quella al terrorismo è una “guerra giusta” contro “the evil”, il male, non una crociata contro l’islam. Allievo di Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, Forte ha collaborato con Jeanne Kirkpatrick, quando la signora era ambasciatore all’Onu. La sera dell’11 settembre 2001 Michael Horowitz, che era nello staff di Reagan, manda gli scritti di Forte ai suoi amici dell’Amministrazione, John Bolton al Dipartimento di stato ed Elliott Abrams al Consiglio di sicurezza nazionale. Serve una strategia e Horowitz ricorda le testimonianze di Forte al Congresso sulle persecuzioni religiose. Così accompagna gli scritti, che finiscono nelle mani degli speechwriter della Casa Bianca, con una nota: “Bush deve sapere che difende anche l’islam se elimina gli integralisti, Forte è l’unico ad avere strumenti intellettuali che servono in questa emergenza”. Anche perché è un pensatore cattolico di quelli tosti e sa che la religione ha un ruolo centrale nella vita politica. Il presidente e lo staff leggono entusiasti. Colpiti dallo stesso ottimismo che ieri riversava lo storico libanese Fouad Ajami sul Wall Street Journal, il sole che dopo trent’anni di “notte baathista” è tornato a iluminare i luoghi santi sciiti. Ajami è fra gli sponsor della nascente “università americana” di Sulaimaniya, Kurdistan iracheno, 162 ettari sul modello di quelle del Cairo e Beirut. Il combattente curdo Barham Salih ha detto di averla chiamata “americana” come gesto di gratitudine. A segnalare a Bush gli scritti di Forte era stato anche uno stretto collaboratore di Donald Rumsfeld, Douglas Feith. Strada facendo si interessano a lui anche gli uomini di Colin Powell, lo chiamano a far lezione. Tra coloro che si sono precipitati a chiedere ai collaboratori di procurargli gli scritti di Forte anche l’ex ambasciatore John Negroponte. Interi passaggi del discorso di Bush al Congresso dopo l’11 settembre erano ripresi pari pari da Forte. Senza dimenticare Paul Wolfowitz, il quale ripete sempre che “non c’è alcuna guerra fra islam e occidente. I nostri più grandi alleati sono centinaia di milioni di musulmani”. La tesi di Forte è infatti che sin dalle origini, da quando alla morte del Profeta nel 632 era scoppiata la guerra civile tra i seguaci del califfo assassinato Othman (sunniti) e i partigiani di Ali (sciiti), l’islam sarebbe stato caratterizzato da uno scontro feroce. Un gruppo, i Muraigiti, predicava tolleranza ed eguaglianza. Un secondo, i Mutaziliti, si appellava alla ragione: produsse al Farabi, Avicenna e Averroè. Ne sarebbero eredi i “riformatori”. Un terzo, i Kharigiti, si erse a nemico degli uni e degli altri, predicando l’assassinio dei leader che osassero allontanarsi dai principi. Furono loro a uccidere Ali. Secondo Forte, al Qaida e i Fratelli musulmani si rifanno a questi “eretici originari”. Mirano non soltanto alla guerra santa contro l’occidente, ma anche alla supremazia nel mondo islamico. In un libro sulla dottrina islamica del diritto pubblicato nel 1999, Forte spiega che “malgrado gli estremisti spesso demonizzino l’occidente, il loro vero bersaglio è l’islam tradizionale”. La sera dell’ormai celebre discorso alla nazione, che porta Bush al picco di consensi, ai giornalisti che chiedono chi abbia fornito l’ossatura del suo pensiero, gli uomini della Casa Bianca rispondono: “Forte-ed” (rivisto da Forte). Da allora è stato invaso dalle richieste di interviste. In questa lunga conversazione con il Foglio, David Forte spiega perché continua a ritenere quella contro l’Iraq una “guerra giusta”. Appartiene alla corrente cattolica che ha sostenuto il diritto all’invasione, insieme al giurista Robert George, al direttore di Crisis, Deal Hudson, a quello di First Things, Richard J. Neuhaus, al neotomista Michael Novak e al gesuita James Schall della Georgetown University. Per rispondere alla domanda sulla bocca di tutti, “come sta andando in Iraq?”, Forte dice che è necessario immaginare come sarebbe il mondo oggi se Saddam non fosse stato detronizzato. “Grazie a George W. Bush, gli islamici totalitari oggi non hanno ciò che avevano nazisti e sovietici: una sicura base territoriale” spiega Forte al Foglio. “L’Unione Sovietica di Lenin e Stalin, la Germania di Hitler, la Cina di Mao erano stati terroristi, come i talebani, cercavano non soltanto di distruggere il popolo, ma anche le persone, ed è proprio il concetto di persona che si oppone a quello che è il loro dominio assoluto. Se nel 2003 non avessimo invaso l’Iraq, Saddam sarebbe ancora al potere, guiderebbe il più grande esercito arabo e la seconda potenza petrolifera del medio oriente. Magari non disporrebbe di armi atomiche, ma certo di armi chimiche e batteriologiche e di un sistema missilistico in grado di lanciarle. Coopererebbe con la Corea del nord e cercherebbe di rifornirsi di tecnologia nucleare. Avrebbe formato un’alleanza con il cesarismo di Chàvez. Ci troveremmo di fronte a un’asse del male con Iraq, Siria, Iran, Corea e Venezuela. La Siria non si sarebbe ritirata dal Libano e non ci sarebbe stata rivoluzione democratica a Beirut. Nella regione la reputazione degli Stati Uniti sarebbe al minimo storico. Un conto per l’America era piegare un paese debole come l’Afghanistan, un altro era vincere una potenza come l’Iraq. Saddam avrebbe formato un cartello con al Qaida e cercherebbe di riportare i talebani al potere a Kabul. Gli sciiti avrebbero perso ogni rispetto per gli Stati Uniti che non avrebbero rispettato le promesse per la seconda volta, dopo il 1991. La pressione contro Israele sarebbe cresciuta notevolmente. La Russia sarebbe rientrata in medio oriente con vigore, Bush sarebbe uscito sconfitto alle elezioni del 2004 e l’Europa avrebbe cercato di sfamare il nemico con l’appeasement. Non attaccare sarebbe stato disastroso come non colpire Hitler. In termini geopolitici, morali e di diritti umani la guerra all’Iraq era giustificata. La ragione per cui Saddam, come Hitler, andava attaccato era che forniva una ‘giusta causa’. Quando un regime illegale minaccia l’ordine internazionale, è giusta causa attaccarlo preventivamente. Le violazioni delle clausole Onu, i tentativi di acquisire tecnologia di distruzione di massa e i massacri di curdi e sciiti erano giuste cause per la guerra. Bush sapeva che anche se le armi non fossero state trovate, l’instaurazione di un regime giusto nella regione era il vero scopo della guerra. Siamo all’inizio del tentativo di stabilire una base territoriale per un fenomeno totalitario. Siamo come nella Renania del 1934. Un islam pluralista è possibile, ma non in una struttura totalitaria. Ogni musulmano oggi deve decidere se l’islam è fede o ideologia”. Tra i teorici della guerra giusta spicca anche George Weigel, uno dei più grandi teologi americani e biografo di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. “Bush ha riconosciuto la minaccia esistenziale posta all’occidente dal jihadismo” ci spiega Weigel, che della guerra per la “riconquista di Baghdad” ha scritto sull’ultimo numero di First Things. “Dopo l’11 settembre, seppur lentamente, l’Amminstrazione ha riconosciuto che si trattava di una guerra con più fronti e di cui l’Iraq è il principale. Ovviamente diventa ogni giorno più difficile proseguire una guerra in cui i bambini sono usati come esche e i fanatici si fanno uccidere in nome del proprio Dio. Il peggio di sé quest’Amministrazione lo ha dato nella comunicazione”. Quando l’esercito americano è penetrato in Iraq, ci aspettavamo uno dei paesi più evoluti del mondo arabo. “Abbiamo invece sperimentato la distruzione che il totalitarismo arreca al cuore della società” dice Forte. “E scoperto quanto fosse decrepita la struttura fisica del paese. Al posto di una società educata e colta, ci siamo confrontati con decenni di crudeltà. Impantanata nelle faide fra Dipartimento di stato e Pentagono, l’America non ha avuto alcun piano per ricostruire l’Iraq. Abbiamo escogitato l’idea di farlo fare agli iracheni. Non c’erano truppe sufficienti per fermare le infiltrazioni qaidiste da Siria, Iran e Arabia Saudita. Abbiamo bollato l’insorgenza come ‘minoritaria’, senza capire il sostegno sunnita. Abbiamo accresciuto la divisione smantellando l’esercito. Ora dobbiamo costruirne uno nuovo. Bush non aveva ricostruito l’esercito americano dopo gli anni della decadenza clintoniana. Un dispiegamento massiccio di truppe in Iraq era impossibile. Avremmo dovuto chiamare la Guardia nazionale”. Secondo Weigel il problema più grande è l’impazienza americana. “Questa guerra sta durando più della Seconda guerra mondiale. I jihadisti in tutto il mondo parlano di mantaq al Madrid, ‘effetto Madrid’, riferendosi alle bombe alle stazioni. Un equivalente americano dell’‘effetto di Madrid’ è l’obiettivo di saddamiti e jihadisti in Iraq. Anche se sanno di non poter vincere, vogliono degradare la volontà del popolo americano. La leadership al Congresso vive in un universo congelato, ferma all’ottobre scorso, da allora molto è cambiato e Bush ha riconosciuto gli errori. Troppi legislatori alla Camera e al Senato sono più preoccupati di disarcionare il presidente che di vincere la guerra contro il jihad”. Per Weigel in Iraq sono state combattute quattro guerre. “La prima per deporre il regime e creare condizioni per un governo responsabile. E’ stata una guerra vinta a basso costo. La seconda, contro i baathisti recalcitranti, è anch’essa vinta. La terza, al Qaida contro la fragile democrazia irachena, e la quarta, fra sunniti e sciiti dopo la distruzione della cupola di Samarra, sono ancora in corso. L’America non era pronta militarmente e politicamente alle ultime due. Ma in Iraq non vengono più scavate fosse comuni, lo stupro non è più lo strumento di uno stato poliziesco, la libera stampa si sviluppa, i bambini imparano sui libri di scuola e non vengono avvelenati dalla propaganda, il petrolio è a beneficio del popolo e quel popolo è al centro del dibattito sul proprio futuro, nonostante i tentativi dei terroristi di chiuderlo”. Anche Forte parla di guerre parallele. “Il Ventunesimo secolo è iniziato trascinandoci nella guerra civile dell’islam. In Iraq è in corso una guerra fra islam tradizionale e qaidista, una guerra civile fra i difensori del vecchio regime e del nuovo ordine democratico e una guerra fra sunniti e sciiti. Bush ha avuto ragione a elogiare il coraggio quotidiano degli iracheni che sono andati tre volte a votare. Così al Qaida ha diretto la furia omicida contro gli sciiti per fomentare una guerra religiosa. Alcuni dicono che Bush doveva sapere delle divisioni fra sunniti e sciiti. Ma nonostante le faglie religiose ci siano dall’inizio della storia del Profeta, in Iraq sunniti e sciiti hanno avuto relazioni senza divisioni. E’ stato il legame dei sunniti con Saddam a scatenare il risentimento sciita. La priorità americana avrebbe dovuto essere integrare i sunniti nel nuovo ordine attraverso concessioni petrolifere e costituzionali”. L’esempio di altri paesi è istruttivo. “In Sud Africa fra bianchi e neri e in Ungheria con gli ex comunisti, si è passati dalla strada della riconciliazione e del perdono. La regola per l’Iraq deve essere: vi perdoniamo gli errori passati e vi accettiamo nel nuovo ordine se voi prima lo accettate. Il primo ministro sciita al Maliki e il presidente curdo Talabani hanno annunciato una nuova legge per la revisione della debaathificazione. Ma pare che l’ayatollah Ali al Sistani non accetterà”. Secondo Weigel il regime di Saddam revitalizzato sarebbe stato un pericolo mortale. “Il cambio di regime in Iraq era una necessità per il popolo iracheno, per la pace in medio oriente, per cambiare la cultura araba dell’irresponsabilità. Fouad Ajami ha detto che il rapido collasso del regime saddamita ha mostrato il ‘falso mondo’ in cui gli arabi vivevano. Se l’America ce l’avesse fatta in Iraq e l’Iraq avesse avuto successo come moderna società islamica, i falsi sogni dei regimi arabi avrebbero subìto un colpo fatale. In questo senso gli jihadisti sono alleati dei miscredenti. Accelerare la transizione verso un governo arabo responsabile nella regione era la grande idea dell’Amministrazione nel portare in Iraq il ‘dono straniero’. La messa a punto di quell’idea è stato un fallimento. L’idea resta nobile. Soprattutto l’unica in campo”. Forte parla di nausea europea. “Mentre Reagan parlando di ‘impero del male’ dava una speranza ai detenuti del Gulag, gli intellettuali europei si dicevano imbarazzati per la rozzezza del presidente Usa. Sono stati Truman, Reagan, Thatcher, Wojtyla ad aver chiamato il male con il suo nome facendone crollare il marcio edificio. Oggi dovremmo sperare che un paio di quei nomi tornino ad aiutarci. Ma l’Europa mi pare un continente che cerca una pace che ha perso da tempo. Se anche noi avessimo continuato con l’appeasement avremmo perso la Guerra fredda. L’occidente ha dovuto combattere contro il relativismo morale che aveva offuscato gli obiettivi reali del comunismo. E ha vinto la sua guerra civile quando ha capito che era in guerra contro il male”. Chiede Weigel: “Dov’è il pianto degli europei per le vittime delle bombe umane? E contro le madri che educano i figli a diventare ‘martiri’”. Weigel accetta con sospetto lo sguardo simpatetico che Forte rivolge all’islam. “Penso che gli jihadisti sono stati abili nell’inserirsi nelle strutture della teologia islamica, radicalizzandola per cercare di promuovere la causa del jihad. La condanna dell’omicidio in nome di Dio dei 38 leader islamici nella ‘Lettera aperta a Benedetto XVI’ è stata di aiuto, ma ora è loro responsabilità di dimostrare che l’islam è una religione di pace. Non sarà facile, non oggi”. Forte sostiene che per capire ciò che è in gioco in Iraq bisogna guardare la carta georgrafica. “L’Iraq domina il medio oriente, i suoi confini sono estesi a tutti i paesi arabi tranne l’Egitto, al Qaida ha fatto dell’Iraq, non dell’Afghanistan, il suo fronte della guerra contro l’America. Se l’occidente perde in Afghanistan sarebbe una sconfitta morale. Se perdesse in Iraq, sarebbe una calamità. L’Iraq deve diventare la base di un movimento democratico che si diffonda in tutto il medio oriente per sconfiggere il totalitarismo islamico”. Per Forte la democrazia senza fondamento religioso è instabile: “La democrazia e la religione devono sviluppare una relazione simbiotica. La rivoluzione francese fu una rivolta democratica contro la religione e finì nel terrore e con una dittatura militare su tutta l’Europa. Osama bin Laden è dalla parte di tutto ciò che è contrario al senso religioso della persona umana, è un materialista assolutista non diverso da Hitler e Stalin. Come lui sono i talebani, i wahabiti, lo sciismo iraniano, Hamas, Hezbollah e il Sudan. Le loro politiche vanno dall’intolleranza al genocidio. I radicali islamici cercano di sostituire il potere di Dio con il proprio. Se la cristianità protestante si alleò con la rivoluzione americana, lo scintoismo con la democrazia giapponese e il cattolicesimo con l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale, oggi gli Stati Uniti hanno bisogno di religiosi come al Sistani, il leader degli sciiti in Iraq”. Secondo Forte i doni dell’America al mondo sono la libertà e la legge. “La libertà è un dono, ma deve essere accettato. Durante il periodo abbasside, la civiltà islamica ha accettato molti doni, come la matematica dall’India e la filosofia dalla Grecia. Molti musulmani hanno ora accettato il dono della democrazia e molti musulmani che vivono nelle democrazie non lo accettano. Bush era nel giusto quando ha detto che la libertà è un dono di Dio. Il popolo iracheno ha votato per la libertà, ora le forze della tirannia, del tribalismo e dell’odio cercano di rubargli questo dono. E come i nazisti trattavano i non ariani come subumani, così fanno gli islamici radicali. Come i nazisti, usano simboli, non i Sudeti o la Renania, ma Arabia Saudita, Palestina e Andalusia”. Per Weigel l’obiettivo in medio oriente è la costruzione di governi responsabili. “Possono assumere molto forme, di cui il parlamentarismo alla Westminster è una. La libertà è contagiosa e il mondo arabo è in fermento per quanto accade in Iraq. E’ ridicolo pensare che lo status quo sia ‘stabile’. Non possiamo aspettarci che l’Iraq diventi come il Connecticut, dobbiamo lavorare perché, come ha detto Benedetto XVI, l’islam assimili i migliori principi dell’illuminismo, come la libertà religiosa e la separazione del potere religioso e politico. Senza per questo abbracciare lo scetticismo morale e il relativismo. La dottrina cattolica sulla ‘guerra giusta’ ha bisogno di un significativo ripensamento alla luce dei nuovi eventi. Come ha detto Bernard Lewis, ‘la guerra contro il terrore e la richiesta di libertà sono inestricabilmente legate, nessuna delle due può avere successo senza l’altra’”. Il professore di Cleveland non è risentito che i suoi lavori siano letti aWest Wing. “Bush è uomo di coraggio, dopo le Twin Towers ha capito che eravamo al centro di una guerra mondiale, una guerra generazionale di cui l’occidente avrebbe sofferto a lungo. Sapeva che non potevamo permettere che il nemico totalitario acquisisse una base geografica. Nella terra più infertile del mondo abbiamo piantato l’albero della benedizione della democrazia, è presto per dire come andrà a finire. Ma l’appeasement in Palestina, Iraq e Afghanistan non ha futuro. Bush è sincero quando dice che l’islam è una religione di pace perché comprende il cuore spirituale di questa fede. La famiglia, la casa, il lavoro, l’amicizia, la fede, la libertà, sono stati i bersagli diretti a cui hanno puntato i terroristi per sterminare quelle parti dell’esistenza umana che rendono la vita degna di essere vissuta. I regimi terroristici cercano sempre di distruggere l’arte e la religione, bruciano libri, frantumano icone, abbattono statue, non producono mai oggetti di bellezza, perché la bellezza deriva dallo spirito umano e lo spirito umano è il loro nemico”. Un mistero è al cuore dell’islam. “Doveva essere la prima civiltà ad abbandonare la schiavitù, invece è l’ultima. La prima a stabilire la libertà religiosa, invece è l’ultima. La prima a stabilire l’eguaglianza delle donne, invece è l’ultima. La guerra contro il terrorismo è anche per liberare la teologia islamica. La libertà è l’unica condizione in cui la religione sopravvive. La libertà ha sconfitto nazismo e comunismo. E oggi ha alleati naturali nel mondo musulmano. Sono i giovani afghani nemici dei talebani, sono gli scrittori in Egitto e le donne che non si vergognano di mostrare il proprio volto”. David Forte conclude con una domanda. “Benjamin Franklyn durante la rivoluzione americana fu avvicinato da una signora: ‘Come può essere ottimista?’ Franklyn rispose: ‘Mia cara signora, qual è l’alternativa?’. Ci sono molti scrittori e studiosi americani che credono che l’islam sia la religione di bin Laden. Se fosse vero mi chiedo: perché stiamo morendo per la libertà dei musulmani iracheni? E perché i musulmani stanno morendo negli attacchi dei bolscevichi dell’islam? C’è voluta una generazione per sconfiggere il nazismo. Un’altra per il comunismo. Ce ne vorrà una terza contro il nuovo totalitarismo. L’11 settembre la risposta degli eroi americani fu di reagire alla chiamata della morte con l’invocazione alla vita. Le città contribuirono a sostituire i pompieri di New York caduti. Quei pompieri che vivevano in quartieri modesti. Siamo passati dai segni della morte ai segni della vita. E’ l’America, un luogo in cui chiunque può aspirare a essere un eroe. Quando vediamo una t-shirt con scritto ‘scegli la vita’, sappiamo cosa significa”
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