La jihad è stata dichiarata, l'Europa non l'ha capito un capitolo dell'ultimo libro di Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 12 aprile 2007 Pagina: 2 Autore: Carlo Panella Titolo: «LA BOMBA E LO STRUZZO EUROPEO»
Il FOGLIO dell'12 aprile 2007 pubblica un capitolo – dal titolo “Cassandra” – del libro di Carlo Panella “Fascismo Islamico” (Rizzoli, 12,50 Euro) appena uscito nelle librerie. Ecco il testo:
Irshad Manji, una delle più popolari e interessanti teologhe musulmane contemporanee, con poche parole ci fa comprendere quale sia la tendenza oggi nell’islam: “Fui cacciata a quattordici anni dalla mia madrassa di Vancouver dopo una lite furibonda con il maestro che a un certo punto mi ha detto: ‘O credi che gli ebrei sono cattivi o te ne vai!’. Io mi sono alzata in piedi e ho marciato fuori spalancando la porta con un calcio. E mentre uscivo ho gridato: ‘Gesù Cristo!’, senza rendermi conto lì per lì che anche Gesù era ebreo”. Questa scena non si è svolta in una madrassa del profondo Pakistan, ma in Canada, negli anni Ottanta. Eppure quel maestro considerava gli ebrei, non gli israeliani, come esseri abbietti. Per il moderno maestro della moderna madrassa della modernissima Vancouver, gli “ebrei” dunque, non gli israeliani, sono cattivi. Molto probabilmente si trattava di una madrassa annessa a una delle 15 mila moschee fondate nel mondo dall’Arabia Saudita. Nel libro di testo “Unicità e teologia della religione islamica” diffuso in queste scuole si trova infatti scritto: “Tutte le religioni diverse da quella islamica sono fasulle. Chi segue un’altra religione il giorno del Giudizio andrà all’Inferno”. In un altro testo viene posta la domanda: “E’ possibile amare gli ebrei, i cattolici? E perché?” e la risposta è naturalmente negativa. Da un sondaggio pubblicato dal Times nel dicembre del 2006 risulta che il 40 per cento dei musulmani inglesi considera gli ebrei del Regno Unito “obiettivi legittimi della guerra per la giustizia in medio oriente”. Il “loro sangue è lecito”, recita la formula islamica. Questi episodi, sommati a mille altri, ci confermano quale sia la tendenza egemonica oggi nel mondo musulmano, e in quest’ottica di cose non stupisce che il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, riesca a rafforzare la sua leadership nella comunità islamica mondiale negando la Shoah e il diritto di Israele a esistere. Deve essere chiaro che la nostra scelta di analizzare questa sorta di fascismo islamico antisemita non deriva dalla convinzione che tutto l’islam contemporaneo gli sia assimilabile. Siamo tuttavia convinti che questo fascismo islamico – pur minoritario – ha ormai una enorme massa critica e che sia in grado di egemonizzare con la sua iniziativa un mondo musulmano in cui ancora incerti sono i tentativi di costruire un rapporto positivo con la modernità e con il resto del mondo. Ma nella grande regione dell’islam storico, dal Bangladesh sino al Marocco, la tendenza in atto è invece quella opposta, lì l’egemonia del fondamentalismo è evidente, in netta crescita. E’ un mondo composito, in cui l’antisemitismo storico cerca e trova le sue ragioni nella lotta di Maometto contro le tre tribù ebraiche della Medina, in cui si radica un Führerprinzip che unisce in un solo leader la funzione di guida religiosa e politica, in cui è acclamata una concezione della religione come jihad, e una cultura della morte – introdotta dallo scisma khomeinista – praticata da migliaia di kamikaze pronti a scagliarsi contro civili innocenti, nella quasi totalità musulmani. Un inquietante mondo in cui si espande il consenso di massa verso un totalitarismo che discende dal grande corpo dell’islam con dinamiche straordinariamente simili a quelle che hanno segnato la discendenza del nazi-fascismo dalla grande, millenaria, alta cultura europea. In questo quadro è facile fare previsioni, esattamente come è probabile che non saranno credute, ma che si avvereranno. Nei prossimi mesi, nei prossimi anni, l’espansionismo iraniano di cui Ahmadinejad è solo un simbolo avanzerà innescando conflitti e guerre, una nuova in Libano, altre nei paesi in cui è forte la presenza sciita: in Iraq, in Bahrein, nella stessa Arabia Saudita (in cui il wahabismo di regime relega gli sciiti nel ruolo di paria). E’ possibile supporre che non vi saranno guerre convenzionali – come quelle contro Israele sino al 1973 – ma conflitti asimmetrici, la cui dinamica sarà simile a quella dell’estate 2006 in Libano. Si tratterà delle cosiddette guerre di guerriglia, gestite contemporaneamente sul piano delle Nazioni Unite (grazie all’appoggio del caudillismo sudamericano di Castro, Chávez e dei Non Allineati), in modo da siglare tregue che permettano equilibri più avanzati. Facendo tesoro della disastrosa esperienza di Khomeini, quando tra il 1982 e il 1988 tentò di esportare in Iraq la rivoluzione, gli iraniani e i loro alleati (Siria, Hamas, Hezbollah e Moqtada al Sadr) abbandoneranno la strategia di sfondamento attraverso la guerra convenzionale, che allora fallì. I leader di questo Asse del jihad applicheranno una tattica flessibile, basata sul concetto militarreligioso della hudna, la tregua (fu Maometto ad applicarla nella riconquista della Mecca, da cui era dovuto fuggire nel 622 d.C.). Anche di questa filosofia bellica basata sulla tregua si conosce ben poco in occidente, e ciò causa fraintendimenti. Per la logica jihadista, il paradigma di von Clausewitz è rovesciato e “la politica risulta essere la continuazione della guerra con altri mezzi”, non viceversa. La tregua, che nel linguaggio europeo è foriera dell’irrompere della politica nel conflitto e quindi dell’aprirsi delle possibilità di mediazione, per l’islam jihadista è solo un momento durante il quale si riprendono le forze, e con la trattativa politica si coprono il riarmo e il reclutamento per l’inevitabile, prossima battaglia. Quando Hamas offre a Israele una hudna di dieci anni, lo fa nella convinzione che tra dieci anni il suo obiettivo strategico di distruggere Israele sarà più facilmente raggiungibile (…). Lo stesso ha fatto Hezbollah in Libano nell’estate del 2006, quando ha siglato una hudna nell’intento poi di ripartire più forte (con buona pace di Kofi Annan, Prodi e D’Alema). Dal canto suo l’arcipelago fondamentalista sunnita di matrice al Qaida, in un certo senso spiazzato dall’iniziativa sciita (che sente come avversa e che ha conquistato l’alleanza con la sunnita Hamas), continuerà la sua pressione su Afghanistan, Iraq, Giordania e occidente, ma soprattutto avrà l’opportunità di radicarsi ed espandersi in Pakistan. L’incapacità riformista dimostrata da Parwez Musharraf, che ha saputo solo irrigidire e rendere assoluto il suo potere personale, espone infatti questo grande paese a pericoli imminenti di crisi interna. Il mondo delle madrasse fondamentaliste continua indisturbato la sua opera di penetrazione, mentre i vertici militari seguitano a essere attratti da una visione totalitaria dell’islam. Il fallimento dell’ipotesi moderata rappresentato da Benazir Bhutto dimostra come le forze laiche, che pure esistono in Pakistan, non sono tuttavia in grado di imporsi. Se la progressione di consensi e di iniziative jihadiste di queste due ganasce della tenaglia (sciita-iraniana e sunnita-salafita) si svilupperà con i ritmi travolgenti registrati dopo l’11 settembre, è probabile che la successione a Mubarak in Egitto e quella all’anziano re Abdallah in Arabia Saudita ne saranno pesantemente condizionate. In effetti i regimi egiziano e saudita, caratterizzati da un rigidissimo accentramento di poteri, incapaci di riformarsi e di dare uno sbocco alle tensioni sociali, politiche ed economiche di società ormai moderne (la quasi certa designazione del figlio Gamal quale successore di Mubarak è sintomo di una dinamica dinastica medioevale), mostrano già sintomi iniziali di quel collasso di cui si è detto a proposito dell’Algeria e dell’Iraq. La più che probabile affermazione elettorale dei Fratelli musulmani in caso di elezioni libere al Cairo – simile, ma certo non identica a quella che innescò la guerra civile algerina nel 1991 – è il principale sintomo di questa tendenza al “collasso”. Osama bin Laden, sin dal 1998, pose al centro del suo jihad contro crociati ed ebrei l’obiettivo di abbattere il regime idolatrico che governa sulla Mecca e sulla Medina. Oggi, nove anni dopo, possiamo valutare come si sia sviluppata la sua presa di consenso nel paese. In Arabia Saudita, infatti, non solo continuano le sue iniziative terroristiche, non solo le autorità centrali sono costrette a epurare decine di ulema che simpatizzano per al Qaida, ma si sviluppa una partecipazione massiccia di sauditi (non meno di 2.500 sono stati individuati dagli americani) alle iniziative terroristiche nel confinante Iraq. In questo quadro, l’accerchiamento aggressivo contro Israele aumenterà di intensità e a nulla potrà servire la sempre più urgente e auspicabile formazione di uno stato palestinese. Né il blocco aggressivo che fa capo all’Iran, né quello fondamentalista che va dai Fratelli musulmani ad al Qaida si fermerebbero di fronte a uno stato di Palestina. Al contrario, gli uni e gli altri cercherebbero di farne la casamatta per un assalto continuo contro Israele, come già fece Hamas a partire dal 1993 con i suoi attentati per fare fallire gli accordi di Oslo, come ha ripetuto dopo il ritiro israeliano da Gaza, come ha fatto Hezbollah dopo il ritiro israeliano dal Libano nel 2000. Non è mai stato vero – e non è purtroppo vero oggi – infatti, che la chiave della pace in medio oriente passa per la formazione dei due stati in Palestina, semmai è certo il contrario: si potranno costruire i due stati solo dopo che le spinte islamiche per la distruzione di Israele, che agiscono dal 1948 in poi, verranno sconfitte. Ogni dubbio al riguardo è stato spazzato via dalla condotta di Hamas, che ha precipitato la Palestina nel caos e nel sangue pur di non accettare la legittimità dello stato di Israele e pur di ribadire che tutte le sue energie saranno indirizzate alla sua eliminazione dalla faccia della terra. Ma Hamas non avrebbe mai potuto perseguire questa sua strategia se non avesse trovato, come ha trovato, la potente alleanza del “motore agente” della rivoluzione nell’Iran di Ahmadinejad e nei suoi alleati siriani, libanesi e iracheni. Nei prossimi mesi e anni l’Europa dovrà quindi decidere se continuare nella sua cinquantennale politica dello struzzo o se adottare, finalmente, la stessa dottrina che democratici e repubblicani americani applicano da decenni, considerando Israele interesse strategico per la difesa della sicurezza degli Stati Uniti. Solo quando maturerà questa consapevolezza – passi essa per una sua associazione formale alla Nato (come proposto in Italia dal sottosegretario Gianni Vernetti) o per altre formule – Ahamadinejad e i tanti che concordano con le sue farneticazioni antisemite e totalitarie troveranno un argine concreto ai loro progetti genocidi. Non si prospetta qui, naturalmente, l’adozione di una strategia militare aggressiva, ma si intende proporre una decisa, ferma, scelta di campo. L’Europa non può ormai più esimersi dal dovere di mostrare a quella enorme parte del mondo musulmano che vuole distruggere lo stato ebraico il suo impegno in una attiva deterrenza, politica ma anche militare, a difesa di Israele. Questo pessimistico scenario, beninteso, potrebbe essere annullato e ribaltarsi in più ottimistiche previsioni se si aprisse una crisi dentro il regime iraniano, e se riuscissero ad affermarsi nei paesi arabi correnti riformiste e modernizzatici sufficientemente forti. Ma oggi il regime degli ayatollah, sicuramente minoritario quanto a consensi in Iran, non ha da temere nessuna forza politica, nessun leader, nessuna ideologia, nessuna spaccatura interna alla “chiesa” sciita. In Egitto, in Arabia Saudita, per altro verso, le forze riformiste appaiono deboli e divise. L’unico paese arabo in cui queste operano con un certo profitto è l’Iraq, e solo grazie all’intervento anglo-americano. Se curdi, sunniti e sciiti riusciranno – con l’aiuto militare esterno – a stabilizzare il regime di Baghdad e a concretizzare l’ottima Costituzione che hanno definito, si avrà nel cuore del mondo islamico un punto di riferimento antagonista a quello jihadista, ma sempre in ambito musulmano, poiché né in Iran, né in Iraq, né in Egitto o altrove è oggi ipotizzabile un’alternativa laica ai regimi al potere. Questa è davvero la questione basilare: i regimi fondamentalisti potranno essere messi in crisi e rovesciati solo da forze che riusciranno ad affermarsi in alveo islamico, tese non certo a importare democrazia occidentale, ma a rispettare i diritti dell’uomo – innanzitutto quelli della donna – e a contrastare lo stato inquisitoriale che combatte l’apostasia.
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